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La riscoperta dell’America
Orazio Martinetti
Una cascata di immagini e parole ha ritmato le giornate dello scorso mese di novembre. Protagonisti assoluti: i due candidati alla carica di presidente degli Stati Uniti: Trump e Harris, il repubblicano e la democratica, il magnate di destra e la donna di colore liberal, lo spaccone e la moderata. In fondo abbiamo votato anche noi, dai divani del nostro piccolo angolo di terra. Loro non sapevano chi fossimo noi, mentre noi sappiamo chi sono loro. Chissà, magari eravamo più informati noi dell’isolato farmer dell’Ohio… Da dove nasce tanto interesse per la grande Nazione d’oltre Atlantico? Beh, innanzitutto sono i nostri «padroni», come candidamente mi ha confessato un collega. Incontestabile. Finora gli Stati Uniti hanno retto le redini dell’Occidente, ponendosi come super-gendarme dell’Alleanza atlantica. È il nostro capo-famiglia, quindi è giusto occuparsene, cercare di capire quale sia la direzione di marcia della nuova amministrazione, in particolare in campo economico-daziario.
Secondo: il modello elettorale americano è macchinoso ma al fondo elementare: obbliga a schierarsi sulla base di una logica bipolare. E questa «semplificazione», stile «duello a Mezzogiorno», piace agli elettori che non amano i sistemi complessi, come sono spesso quelli europei. Ma poi, al di là dello scontro politico, perdura in tutti noi la suggestione dell’american dream, della prodigiosa macchina culturale, dal cinema alla musica alla letteratura. Viene in mente Alberto Sordi formato macchietta nel film Un americano a Roma, ma anche scoperte e appassionamenti veri, come quelli coltivati, fin dal tempo del fascismo, da scrittori come Elio Vittorini, Cesare Pavese, Italo Calvino. «L’America – disse una volta Umberto Eco – più che uno schema imitabile, è stato un termine ideale, un luogo mitico». Infine rimane impressa nelle menti di molte famiglie ticinesi, valmaggesi in particolare, l’epopea migratoria, iniziata nella seconda metà dell’Ottocento e proseguita, tra alti e bassi, per tutto il Novecento, come ci ricorda sempre Giorgio Cheda nelle sue ricerche: «Il coro dei montanari cisalpini in trasferta nel mondo è così diventato parte di una sinfonia universale, non priva di contrasti e drammaticità, ma anche di successi» (Dal Ticino verso la libertà, edizioni Oltremare, 2022). Poi, certo, ci sono anche le disillusioni, i disinnamoramenti per un Paese che pare aver voltato le spalle alle speranze sollevate da John F. Kennedy ai tempi della nuova frontiera. L’America delle manifestazioni contro la guerra nel Vietnam, della lotta per i diritti civili, dei campus universitari in subbuglio, e più recentemente dei movimenti noglobal. Simpatia anche per l’America delle tecnologie innovative, sviluppate in qualche anonima autorimessa della California per iniziativa di alcuni scapigliati e anticonformisti pirati informatici. Due nomi su tutti: Steve Jobs e Steve Wozniak, i fondatori della Apple. Procurarsi i loro prodotti voleva dire aderire ad un modello di società libertario e antiautoritario, estraneo se non ostile alle grandi corporations come l’IBM (infatti, agli inizi, i due sistemi operativi non erano compatibili).
Adesso tutto è cambiato. Persino la leggendaria «Silicon Valley» teme di perdere il suo pluridecennale primato tecnologico a vantaggio dei cinesi; di qui, probabilmente, l’emergere di un riflesso difensivo e un crescente consenso a chi promette di contrastare la penetrazione nel mercato nordamericano di aziende come Huawei. Altri timori sono legati alla diffusione dell’intelligenza artificiale, considerata come un «killer» di posti di lavoro. «Siate affamati e folli», predicavano dalle contee affacciate sul Pacifico i geniali alfieri della computer science, legittimamente fieri delle loro innovazioni. Passando dai «mezzi di produzione» ai «mezzi di informazione», dai bulloni della vecchia industria ai bit dei circuiti elettronici, promettevano progresso ed emancipazione. Ma poi questo cammino liberatorio si è interrotto: al suo posto è subentrata una nuova fase, fatta di satelliti e viaggi interstellari, chip nel cervello e robot umanoidi, con alla testa la nuova classe dei tecno-oligarchi, un manipolo di miliardari adoratori dei peggiori autocrati. Una transizione non dal capitalismo al socialismo, ma un balzo spaziale da Marx a Musk… Anche questa una Zeitenwende, un passaggio d’epoca di cui s’intravedono, per ora, soltanto i contorni più inquietanti.