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Meloni, Schlein e Salvini: il punto sulla politica italiana
Aldo Cazzullo
In Italia ogni tanto si vota per le elezioni regionali, e questo fa sì che il Paese sia sempre in campagna elettorale. Già questa non è una buona notizia. Le ultime Regioni ad andare al voto sono state Emilia Romagna e Umbria. Entrambe vinte dal centrosinistra. In Emilia Romagna si trattava di una conferma abbastanza scontata; eppure ricordo che nel 2020, quando Matteo Salvini andava citofonando alle case di presunti spacciatori, pure in Emilia Romagna, l’esito finale era considerato sul filo (anche se poi Stefano Bonaccini vinse senza troppi patemi). Nel 2019 in Umbria, invece, aveva vinto la destra. Ma sarebbe un errore pensare che il vento in Italia stia cambiando. La popolarità di Giorgia Meloni resta salda. Il Governo sta facendo poco. I ministri litigano: da ultimi, Alessandro Giuli e Guido Crosetto, sul rinnovo dei vertici del Museo Egizio di Torino, non proprio una priorità per l’opinione pubblica (e tanto meno un settore di competenza del ministro della Difesa). Ma la premier ancora funziona. Sa comunicare. Ad esempio, quando si è aperta una querelle nella maggioranza sul taglio al canone Rai – Lega favorevole, Forza Italia contraria – in una dichiarazione resa camminando, senza neppure fermarsi davanti alle telecamere, ha detto: «Siamo riusciti a imporre una tregua in Libano, riusciremo a risolvere pure la questione del canone Rai». In realtà la tregua (già violata?) non l’ha certo imposta Meloni, semmai è una decisione – tardiva – di Benjamin Netanyahu. Però questa idea della presidente del Consiglio che si occupa di cose serie mentre gli alleati minori sono curvi sulle vicende domestiche ha una certa presa sugli elettori. Almeno per ora. Meloni farebbe bene a non mostrarsi troppo sicura, perché l’economia italiana non va benissimo. Elly Schlein può tirare un sospiro di sollievo. Ma ora deve fare buon uso della vittoria. Mai in una democrazia moderna (con la parziale eccezione di François Mitterrand nel 1981) la sinistra ha vinto le elezioni politiche su una base radicale; sempre l’ha fatto conquistando il centro, in Italia con candidati cattolici come Romano Prodi. Non si pretende che Schlein si converta, però dovrebbe almeno guardarsi dall’impostare la campagna elettorale sulle tasse, anzi assicurare che non saranno alzate al ceto medio. Perché si sa: il leader politico proclama che verranno alzate le tasse solo ai ricchissimi, poi si scopre che quelli sono già al sicuro nei paradisi fiscali, e le tasse vengono aumentate a quelli che già le pagano.
Una giovane donna svizzera è diventata la leader della sinistra italiana. In realtà Schlein è (anche) italiana, figlia di una madre senese e di un padre americano di origine ebraica, ma è nata e cresciuta in Ticino, abbandonato solo a 19 anni per fare l’università a Bologna. Mi ha raccontato che nella sua classe alle scuole elementari c’erano molti ragazzi figli di famiglie fuggite dalle guerre balcaniche, e che questo le ha insegnato i valori della società multietnica e dell’integrazione. Schlein ha una formazione americana: ha partecipato da volontaria a entrambe le campagne elettorali di Obama (2008 e 2012). Ma non rappresenta solo il paravento per occultare vecchi politici. Rappresenta una novità. Però dà l’impressione di non avere ancora convinto del tutto gli elettori. Ma il vero segnale che viene dal voto regionale è il crollo della Lega. Salvini ormai è un cavallo perdente. Neppure abbracciare il generale Vannacci e il sindaco di Terni Bandecchi, che guidava una lista alleata con il centrodestra, evita a Salvini un netto ridimensionamento. La sua candidata, Donatella Tesei, la leghista che governava l’Umbria, è stata sconfitta, più nettamente del previsto. Il partito di Salvini in Umbria passa dal 37% delle scorse regionali al 7, in Emilia Romagna dal 31 al 5. Con questi numeri qualsiasi leader di partito dovrebbe rassegnare le dimissioni. Se poi si pensa al disastro dei trasporti pubblici, di cui in teoria Salvini è ministro, viene da chiedersi cosa aspettino Zaia, Fedriga e gli stessi leghisti lombardi a porre la questione. In realtà non lo faranno, almeno per ora. Perché la Lega è un partito leninista, dove comanda uno alla volta. E perché la Lega di Salvini – nazionalista, sovranista, molto di destra – è talmente distante da quella nordista e federalista di Bossi che, se Salvini venisse messo in minoranza e fosse costretto a lasciare la segreteria, fonderebbe un partito suo. A questo punto l’Italia avrebbe il suo partitino di estrema destra, tipo Alternative für Deutschland in Germania. E neppure questa, a mio avviso, sarebbe una buona notizia.