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La guerra raccontata dai soldati in crisi

/ 02/12/2024
Carlo Silini

«Dev’essere tutto falso e inconsistente, se migliaia di anni di civiltà non sono nemmeno riusciti a impedire che scorressero questi fiumi di sangue, che esistessero migliaia di queste prigioni di tortura. Soltanto l’ospedale mostra che cosa è la guerra». Parola di Enrich Maria Remarque, lo scrittore tedesco morto a Locarno nel 1970, che in gioventù aveva combattuto nelle melmose trincee della Prima guerra mondiale a Ypres e che nel suo romanzo-capolavoro, Niente di nuovo sul fronte occidentale, narra lo scombussolamento non solo fisico dei soldati tedeschi durante il conflitto. E l’incubo dei luoghi di cura: «Ho presenti le orribili immagini dell’ospedale: i soldati asfissiati che, soffocando giorno per giorno, vomitano pezzo per pezzo i polmoni bruciati».

A distanza di oltre un secolo, l’osservazione di Remarque resta attualissima. Perché nei conflitti in Ucraina, nel Medio Oriente e negli altri scenari bellici dimenticati (per l’Istituto di ricerca per la pace di Oslo, sono in corso 59 guerre sparse in 34 Paesi), i morti non possono più parlare, e le rispettive propagande sono abili a nasconderne le salme. Impossibile, per esempio, capire quanti morti ci siano stati negli oltre mille giorni di guerra in Ucraina. E chi si sbilancia nel gioco delle cifre spesso scrive che «tra morti e feriti» ci sono state tot migliaia di vittime. Come se morti e feriti fossero la stessa cosa.

Ma i primi sono invisibili, mentre i feriti, i mutilati, i sopravvissuti alle granate anche solo per un graffio, portano fuori e dentro di sé i segni non occultabili della guerra. Sarà anche per questo che gli ospedali – a Gaza oggi come in Siria anni fa – sono oggetto di bombardamenti? Per cancellare non solo la speranza di salvezza per civili e combattenti colpiti, ma anche la loro imbarazzante presenza in grucce, carrozzelle, occhi di vetro e arti di titanio?

I sopravvissuti sono la prova vivente dello schifo della guerra. Non solo gli aggrediti, ma gli stessi aggressori, che dopo mesi di violenza appresa nelle accademie militari ed esercitata in battaglia esplodono interiormente. «A noi fu data così la più raffinata educazione di caserma, e spesso abbiamo pianto per la rabbia. […] Divenimmo duri, diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi», scriveva Remarque alludendo ai ragazzi mandati al fronte, allora come oggi. E, oggi come allora, inermi di fronte al male che gli si chiede di compiere.

Su «Le Monde» sono apparse le testimonianze di riservisti israeliani in terapia in un ranch nei pressi di Tel Aviv per i disordini da stress post traumatico. Nessuno di loro mette in discussione le scelte del proprio Governo o gli ordini dei generali, ma tutti lottano per liberarsi dagli incubi dai quali sono abitati. «Per voi siamo come dei mostri, vero?» spiega uno di loro, che aveva partecipato all’identificazione del corpo di Yahya Sinouar, il capo ucciso di Hamas. Ma i mostri, in realtà, ce li hanno dentro. Si sentono in pericolo dappertutto, descrivono i compagni d’armi rimasti muti d’un colpo durante un attacco. Uno di loro ha l’impressione di sentire continuamente del «sangue invisibile» colare sul proprio corpo. Un suo compagno aveva testimoniato davanti a una commissione del Parlamento israeliano che i soldati avevano dovuto a più riprese «schiacciare» i palestinesi «vivi o morti, a centinaia». Ordini non meno feroci sono risuonati in questi mesi anche sul fronte opposto (basti pensare alle stragi del 7 ottobre 2023).

«Questo libro – scriveva Remarque – non è che il tentativo di raccontare di una generazione la quale – anche se sfuggì alle granate – venne distrutta dalla guerra». Prima o poi finirà anche questa guerra, immolando di nuovo, tra le altre cose, l’anima di chi l’ha combattuta.