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Mendelsohn, per una critica fatta di gusto e competenza
Aldo Grasso
Parliamo ancora di critica, partendo da una celebre serie americana, Mad Men (Matthew Weiner, AMC, 2007-2015, visibile ora su Netflix). L’opera si offre in un testo denso ed elegante, capace di evocare, più che mostrare, un mondo remoto, sprofondato nel passato ma, al contempo, in grado di interrogare il presente, in una complessa dialettica fra noto e sconosciuto, familiare e non familiare, campo e fuori campo.
Mad Men è un ritratto formidabile dell’America degli anni Sessanta, sospesa fra sogno e disprezzo, fra «persuasori occulti» e il sacrosanto bisogno di lasciarsi persuadere, fra sviluppo economico ed emancipazione sociale e personale.
Questo ai miei occhi, non a quelli del più importante critico americano, Daniel Mendelsohn, che dedica ben quindici pagine del suo ultimo libro, Estasi e terrore. Dai Greci a Mad Men (Einaudi, 2024), per convincere il lettore che «la sceneggiatura [di Mad Men] è estremamente debole, con intrecci abborracciati e spesso tirati per i capelli, e personaggi stereotipati e talvolta incoerenti; l’atteggiamento verso il passato è superficiale e il modo in cui si posiziona nel presente sgradevolmente compiaciuto; la regia è priva di immaginazione». Insomma, quella che a molti è sembrata un riuscito esempio di «quality tv», per Mendelsohn è poco più di una soap opera.
Nonostante le divergenze di opinione, Estasi e terrore è un’opera basilare e monumentale (quasi 400 pagine) che attraversa secoli di cultura, dalla lirica di Saffo ai film di Pedro Almodóvar, alle serie televisive. Questo libro è molto più di una raccolta di saggi. È un viaggio intellettuale che esplora il significato profondo delle opere analizzate, offrendo al lettore strumenti per una comprensione critica e autonoma. E, a parte l’omaggio a Roland Barthes, è avvincente la postura critica assunta dall’autore: occuparsi di mitologie, pensando che ogni narrativa sia un processo di creazione di favole, di «narrazioni», di racconti, così come li intendevano i classici.
Mendelsohn sostiene che il critico serio non si limita a esprimere un giudizio personale: il critico serio, sostiene Mendelsohn, non si limita a imporre il suo «mi piace» o «non mi piace» (come malauguratamente i social media ci abituano a fare, con l’introduzione funesta persino delle pagelle per acchiappare più click), ma dà «a te lettore gli strumenti per farti una tua idea», condividendo la sua conoscenza, esplicitando le ragioni su cui si fonda il suo giudizio, e soprattutto cercando di trarre un senso dall’opera di cui si sta parlando.
In un’intervista a «La Repubblica», l’autore racconta: «Ho iniziato a scrivere nel 1989, all’epoca non esisteva Internet e l’autopubblicazione era estremamente limitata. Non c’erano neanche i blog e tutto quello che ha generato il Far West culturale nel quale viviamo. Ogni recensione veniva stampata e il fact checking era rigorosissimo: un saggio veniva letto da almeno trenta persone. Oggi soltanto alcune pubblicazioni come il “New Yorker” o la “New York Review of Books” continuano a mantenere questo standard di serietà e siamo invasi da critiche, o presunte tali, di persone improvvisate, senza alcuna preparazione accademica. La parola chiave di questa nuova tendenza è self/auto».
Nel fondamentale saggio Il manifesto di un critico, Mendelsohn rivela il segreto della sua passione per la professione: da ragazzo leggeva con avidità i recensori più autorevoli («li consideravo prima di tutto insegnanti»).
Ed ecco infine la sua formula: «La critica si basa su questa equazione: competenza + gusto = giudizio significativo, e la parola chiave è significativo. Le persone che, come la maggior parte di noi, reagiscono intensamente a un’opera ma non possiedono l’erudizione necessaria per esprimere un’opinione pregnante non possono essere definite critici. (Ecco perché molte recensioni dei lettori pubblicate online non sono vera critica). Né possono esserlo le persone che, pur dotate di grandissima erudizione, mancano tuttavia del gusto o del temperamento necessari a conferire autorevolezza al loro giudizio agli occhi dei profani. (Ecco perché tanti accademici non sono bravi a recensire per il vasto pubblico).
Come qualunque altro tipo di scrittura, la critica è un genere per cui bisogna essere portati, e le persone che ci sono portate sono quelle la cui competenza interagisce col gusto in modo convincente e stimolante».