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Abbabulgù Abbagamal, l’etiope partigiano
Melania Mazzucco
Monte San Vicino è una propaggine dell’Appennino marchigiano: quasi millecinquecento metri ricoperti di boschi e affacciati sull’Adriatico. Forse perché da un lato appare come una gobba sinuosa e dall’altro un’acuminata piramide, era sacro a Giano: il dio bifronte della guerra, della pace, e della soglia. Su una strada di questa montagna, il 24 novembre del 1943 fu ucciso Abbabulgù Abbagamal. Nella targa a lui dedicata dal comune di San Severino, avevo letto la seguente definizione: «Etiope. Partigiano».
Mai avevo visto le due parole associate. Ma anche la data, così precoce, mi colpì: nell’autunno del 1943 la Resistenza cominciava appena a organizzarsi. Lo straniero era un membro della «banda Mario» – dal nome del comandante, Mario Depangher, antifascista di Capodistria, che non aveva esitato a raccogliere attorno a sé combattenti di ogni provenienza, lingua e religione. Fra essi, due donne e alcuni neri – immortalati pure in fotografia. La loro storia dimenticata è stata riscoperta da Matteo Petracci, che per anni ha indagato sulla resistenza meticcia e ha poi dedicato loro il volume Partigiani d’oltremare. Dal Corno d’Africa alla Resistenza italiana.
Abbabulgù era un «galla»: oggi diremmo un oromo. Con altri 14 uomini, 4 donne e alcuni bambini, era venuto in Italia nell’aprile del 1940 per rappresentare i popoli del governatorato di Galla e Sidama alla Mostra d’Oltremare, in allestimento a Napoli. Essa doveva celebrare l’Impero, presentando agli italiani (che fin lì l’avevano immaginata grazie a foto, documentari e film) la vita nelle colonie: la Libia, la Somalia, l’Eritrea, e l’Etiopia – appena conquistata. Nei padiglioni avrebbero visto la natura, i villaggi, i mestieri: e gli indigeni, delle varie etnie. In totale, gli africani coinvolti erano più di una sessantina. Ma la Mostra chiuse poco dopo l’inaugurazione, perché l’Italia entrò in guerra, e gli africani rimasero bloccati a Napoli – sorvegliati dagli ascari della PAI (la polizia africana italiana) e prigionieri della loro Africa di cartapesta: benché chiedessero solo di tornare a casa, non vennero rimpatriati.
Le leggi razziali impedivano loro di muoversi, e mescolarsi con la popolazione locale. Vissero tre anni col sussidio del Ministero, costretti all’inazione e percepiti ormai come un fastidio. Alcuni si svagarono partecipando come comparse al film Harlem di Carmine Gallone. Svariati morirono di tubercolosi o malattie respiratorie (troppo duri gli inverni nelle capanne, senza stufe né coperte). Altri finirono in carcere per infrazioni alla legge: nel 1941 Abbagulgù fu denunciato per resistenza a pubblico ufficiale dopo l’aggressione a un ascaro cui aveva sottratto la bicicletta. La condanna a cinque anni di prigione non venne mai eseguita.
Nell’aprile del 1943 gli africani furono trasferiti nelle Marche, in una villa adibita a luogo di confino – benché non fossero sospetti o cittadini di paesi nemici. Fu lì che li colse la caduta del fascismo, e poi l’armistizio. Abbabulgù non era un «fedele ascaro» (come si diceva allora), né un ribelle o un guerriero. Quando altri etiopi fuggirono per unirsi ai partigiani, esitò. Né partecipò quando quelli, con la banda Mario, assalirono Villa Spada per impadronirsi delle armi degli ascari. Ma i tre anni di segregazione napoletana, il razzismo e la cialtroneria dello Stato di cui forse aveva creduto di essere suddito dovevano avergli fatto maturare la convinzione del suo diritto di essere soggetto della propria storia.
Il 2 novembre raggiunse i compagni, i militari italiani sbandati, gli antifascisti, gli ebrei, i prigionieri fuggiti dai campi (inglesi, jugoslavi e sovietici). Tutti i partigiani avevano un nome di battaglia: il suo era Carletto (il diminutivo dovuto alla piccola statura). Il 24 novembre Depangher fu avvisato del passaggio di un’automobile della Wehrmacht. Riuscì a prendere la vettura e l’autista, mentre i partigiani accorsero per catturare i tre ufficiali dell’equipaggio (potevano essere utili ostaggi). Durante l’operazione, Carletto fu falciato da una scarica di mitra. Secondo alcuni, a tradimento: sparò l’autista altoatesino quando gli altri tedeschi si erano già arresi. Carletto fu sepolto sulla montagna, come nella canzone. Per lui vale due volte il verso di Bella Ciao: morto per la libertà.