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L’oblio per l’«insignificanza dell’origine»

/ 28/10/2024
Aldo Grasso

Cartelli in Italia contro Liliana Segre, additata come «agente sionista», in Austria Herbert Kickl vince le elezioni e si definisce «cancelliere del popolo», appellativo con cui era definito Adolf Hitler, in Germania è boom dell’estrema destra: l’AfD vince le elezioni regionali in Turingia e avanza anche in Sassonia. Cosa sta succedendo? Svaniti nel nulla i documenti scritti e visivi, i drammi narrati dai sopravvissuti, i «mai più», le gite scolastiche ad Auschwitz? Nell’arco di due o tre generazioni, l’orrore del nazifascismo, dei totalitarismi in genere, è solo una cartolina sbiadita.

Il rapporto fra memoria e oblio è uno dei nessi più inestricabili e complessi che la storia della cultura abbia tramandato: nelle teche, tutto sembra parlare a favore delle testimonianze ma spesso l’oblio si ribella e trasforma nell’arco di due generazioni il retaggio etico della memoria in dimenticanza.

Dimenticare non è solo una strategia politica, è anche un problema antropologico, come scrive Milan Kundera: «La maggior parte della gente si inganna con una duplice fede errata: crede nella memoria eterna (delle persone, delle cose, delle azioni, dei popoli) e nella riparabilità (di azioni, errori, peccati, ingiustizie). Sono entrambi fedi false». E scorrendo ancora le pagine de Lo scherzo: «Ogni cosa sarà dimenticata e a nulla sarà posto rimedio. Il ruolo della riparazione sarà assunto dall’oblio. Nessuno rimedierà alle ingiustizie commesse ma tutte le ingiustizie saranno dimenticate».

Quando i sopravvissuti dei campi di concentramento sono tornati a casa, per anni non hanno parlato della loro terribile esperienza, come se l’orrore fosse troppo grande per essere raccontato. Poi, poco per volta, sono diventati testimoni dell’atrocità e dell’abisso in cui l’uomo a volte è capace di precipitare; adesso se ne stanno andando. Chi manterrà viva quella memoria?

Il filosofo francese Paul Ricœur (1913-2005) ha dedicato un’ampia e articolata riflessione a questi problemi. Il suo contributo consiste nell’aver messo a fuoco la fondamentale relazione intercorrente tra memoria e racconto (La memoria, la storia, l’oblio, Raffaello Cortina, Milano 2003). Dietro a quelle che chiama le «malattie» della memoria, egli riconosce l’azione paralizzante esercitata dalla «ossessione del proprio passato». Da una parte, ci sono coloro che rimangono bloccati dal ricordo delle ferite patite in un tempo più o meno lontano. Dall’altra parte, c’è chi, per fuggire davanti al ricordo angosciante del passato, cerca rifugio nell’oblio. Ma gli altri, quelli che hanno saputo dopo, quelli che oggi dimenticano l’orrore dell’Olocausto?

Se tempo e memoria costruiscono la civiltà e ne scandiscono le azioni, fin dalle origini c’è un movimento opposto che tenta di sospendere, di sottrarre ogni gesto alla sua funzione. Secondo la sapienza greca, il «seggio della memoria» e il «seggio dell’oblio» sono due posizioni parimenti iniziatiche e la sopraffazione dell’una sull’altra causa dissesti, turba preziosi equilibri.

Ci sono giorni in cui la bilancia sembra pendere a favore dell’oblio, per almeno due motivi. Il primo è che si fa strada l’idea che in alcuni casi un colpo di spugna sulle responsabilità di chi ha causato tragedie e ingiustizie sia la soluzione migliore. Che per abbandonare la conflittualità e consentire di dare vita a una società fondata su un sentimento unitario e non più rivendicativo, sia necessaria una dose di oblio. Per esempio in Italia, il 22 giugno 1946, con un’amnistia nota con il nome del ministro della Giustizia e segretario del Partito comunista, Palmiro Togliatti, il governo di unità nazionale De Gasperi sceglie di esercitare il potere di clemenza per i crimini del fascismo e della Repubblica sociale italiana. A soli quattordici mesi dalla fine della II guerra mondiale, con un provvedimento che non ha eguali negli altri Paesi europei, i vincitori danno pertanto forma legislativa alla rinuncia all’uso della persecuzione penale nei confronti dei vinti e delle loro terribili gesta fratricide.

Il secondo è che l’incessante cascata di informazioni generi una duplicazione continua della realtà da creare una fatale confusione tra il «vero» e il «falso». La sovrabbondanza di informazione e di conoscenza non genera più cesure, tagli, pause. L’indistinguibilità è l’unico carattere dei media e, in particolare, di Internet: il senso della comunicazione si annichilisce – si oblia – per l’«insignificanza dell’origine», precipitata ormai nella notte dei tempi. C’è un eccesso di circolazione, di liquidità dei segni. Il troppo da vedere è assenza, è vuoto. La ricaduta inesausta delle immagini è acqua del Lethe (il fiume dell’oblio) che avanza, senza che nessuno la invochi, la desideri.