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Da tutta la vita all’ascolto di una radio

/ 28/10/2024
Bruno Gambarotta

C’è sempre stata una radio nel mio orizzonte di vita. La prima non ha mai funzionato: era una a galena, costruita per me da zio Ettore che, dopo molti tentativi, convinto di aver trovato la sintonia, m’infilava le cuffie e io dovevo fingere di captare qualcosa. Poi fu la volta di una Marelli, la più economica. Era il 1944 e mio padre, tornato a casa dalla guerra, alle 10 di sera si metteva in ascolto del colonnello Stevens.

A sette anni, da lettore precoce, leggevo a voce alta insegne dei negozi, manifesti, avvisi. Un giorno, ero con mia nonna dalle parti della stazione, vedo all’opera tre giovani: due tengono contro il muro un grande foglio di compensato mentre il terzo intinge il pennello nel barattolo della vernice nera e lo passa rapidamente su tutta la superficie. Tolto il foglio si scoprono un teschio con le tibie incrociate e una scritta che mi affretto a leggere: «Morte a chi ascolta Radio Londra». Tiro per il braccio mia nonna ed eccitato le dico: «Mio papà l’ascolta!». Uno dei tre sente, si volta e scambia un lungo sguardo con lei prima di allontanarsi. Da quella radio Marelli usciva anche tanta musica leggera con le orchestre di Angelini, Barzizza, Trovaioli e relativi cantanti (Otto, il Trio Lescano, Bonino). Per la delizia di zia Emma, sorella non ancora ventenne di mia madre, la nonna organizzava piccole feste in casa, invitando amici del quartiere.

Alle 18 iniziava il coprifuoco ma le nostre case, nel vecchio ghetto, erano collegate da corridoi sotterranei, anche gli ebrei un tempo non potevano uscire di casa dopo il tramonto. I vetri delle finestre erano ricoperti dalla carta da zucchero. Gli addetti alla contraerea multavano chi teneva accese luci che avrebbero potuto segnalare la nostra presenza ai piloti dei bombardieri che non vedevano l’ora di punire chi si permetteva di ascoltare canzonette.

Un anno dopo la fine della guerra entra in casa nostra un totem da soggiorno, una grande Philips in radica e bachelite, 5 valvole e l’occhio magico per regolare la sintonia. Mio padre è l’unico autorizzato ad accenderla e spegnerla. Mi ritrovo nella scena di «Radio Days». Nel dopoguerra fioriscono per me le radiocronache sportive. Dal 30 giugno al 25 luglio del 1948 si corre il Tour de France, vinto da Bartali che nelle ultime tappe recupera un ritardo di quasi 20 minuti. Ma il 14 luglio c’è l’attentato a Togliatti, uno studente gli spara senza ucciderlo quando esce da Montecitorio. Dicono che Bartali sia stato aiutato a vincere il Tour per allentare la tensione. Vengo esortato ad ascoltare le cronache dalla Francia al massimo volume e con le finestre aperte. Gli operai che stanno rifacendo il manto stradale sotto casa si fermano per ascoltare le fasi finali delle tappe.

Un’altra data fa per me da spartiacque. Sono quasi le 8 di sera del 4 maggio 1949, sono seduto sul gradino fuori dal negozio di mia madre parrucchiera, in attesa che chiuda per salire in casa e cenare. Una sua cliente, la signora Basso, irrompe nel negozio e con voce alterata annuncia: «La radio ha detto che è morto il Torino». È una notizia incredibile, ma se «l’ha detto la radio» non può che essere vera. Ecco. Negli anni dell’adolescenza e anche dopo, avevi la meglio nelle feroci discussioni con i compagni se eri in grado di suggellare la tua versione dei fatti con la frase «l’ha detto la radio». Guai a tradire questa mission. La televisione è un rito sciamanico ma la radio è stata ed è ancora una religione laica. Con i suoi officianti: i degni successori di Arnoldo Foà, Ubaldo Lay, Sergio Zavoli, Nando Martellini e tanti altri.

Ricordo con gratitudine le 80 puntate del Viaggio in Italia di Guido Piovene che hanno aperto grandi orizzonti a un ragazzo che non aveva ancora mai viaggiato. E le opere liriche, ascoltate seguendo i versi dei libretti, senza dover vedere una soprano di 120 chili che muore tisica. Avevo 14 anni e, dopo la terza media, mi accingevo a fare il pendolare fra Asti e Torino per frequentare l’Istituto Tecnico G.B. Bodoni e mio padre mi portò un giorno nella metropoli per spiegarmi il percorso e il tram fra stazione e scuola. C’è qualche posto dove vorresti andare? Mi domanda. Non avevo dubbi: via Arsenale 21, la sede di Radio Rai, citata ogni giorno. Era un portone come tanti altri in un palazzo di uffici, la sede legale. Ho poi scoperto dov’erano gli studi, in un palazzo rosso accanto alla Mole. Ma mai avrei potuto immaginare che un giorno avrei messo piede là dentro e mi sarei seduto in uno studio con un microfono davanti alla bocca, oppure in regia. Che Guglielmo Marconi, se può, mi perdoni.