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La fuga prospettica di Aldo Rossi
Oliver Scharpf
«Volete anche vedere com’è fatto il mio cesso?» chiese uno un po’ sbiellato un pomeriggio di agosto cinque anni fa mentre vagavo con il mio amico Davide lungo un corridoio del Gallaratese. Nella parte più teatrale, progettata da Carlo Aymonino (1926-2010) – «architetto e comunista» come ha voluto scolpito sulla sua lapide – che propose ad Aldo Rossi (1931-1997) – architetto e designer milanese noto per il cimitero capolavoro di Modena, due caffettiere, L’architettura della città (1966) eccetera – di collaborare con un’unità di abitazione al suo più vasto complesso residenziale battezzato, all’epoca, Monte Amiata. Così si chiamava la società mineraria mercurifera livornese che l’ha commissionato in località Trenno, zona San Leonardo: un ex lotto di terreno agricolo diventato insediamento abitativo meglio noto oggi come il Gallaratese. Prendendo il nome dal quartiere, Gallaratese 2, sorto alla periferia nord-ovest di Milano. E meta, come testimonia l’abitante sbiellato – già preso a calci dal destino e magari pure ai domiciliari – di forse troppe passeggiate architettoniche-ficcanaso.
Dalla fermata del metrò San Leonardo, linea rossa, a piedi è un attimo scorgere, al cinquantatré di via Enrico Falck, l’edificio di Aldo Rossi a cui limiterò stamattina il mio sguardo. Mica per demerito di Aymonino, il cui luogo vale eccome la pena e vive in simbiosi con la parte di Aldo Rossi nata nel 1969-70, ma per sentimento e ragione: mi è rimasta negli occhi la fuga prospettica del portico lamellare al pianterreno che vorrei studiare meglio. L’idea di base della lunga coda bianca del dinosauro rosso, utilizzando le parole, ricomposte, di Aldo Rossi, per le due unità abitative, è il ballatoio: cuore, oltre la corte, delle case lombarde di un tempo. A colombario, le aperture quadrate del ballatoio al secondo e terzo piano. Rettangolari e più alte al primo, mostrando meglio il ballatoio e continuando lo stesso tragitto verticale diventando le pareti-pilastro del piano terra porticato. Sono queste lamelle in cemento alte non so quanti metri, adesso color beige una volta pare avorio, e le loro ombre soprattutto, uno dei motivi del grande fascino di questi spazi ariosi che corrono sotto l’edificio per centottantadue metri.
Due donne delle pulizie, lente e silenziose più di due suore nel chiostro di un convento, punteggiano la fuga prospettica del porticato questa tarda mattina di fine settembre dal tempo incerto. Cinguettii provengono dal giardino a destra dove si potrebbe deviare; a sinistra entrano frammenti del dinosauro di Aymonino. Tra memoria e destino, sprofondo in un pianosequenza ambulatorio, perdendo un po’ di vista l’architettura per essere del tutto in questo spazio umbratile e assoluto con sprazzi perfetti di tristezza sironiana. Caccio le ombre, la luce, il taglio obliquo tra le due, per cui vado matto, sulle lamelle-pilastri, catturandone così la linea che per Kandinsky «può indicare ascesa e caduta, tensione e dinamismo». Nel punto di fuga appaiono delle scale, colonne gigantesche poco prima, cambio drastico di altezza delle lamelle, maggior luce che entra dai lati. «Il portico lamellare subisce un improvviso scarto altimetrico, laddove l’ordine gigante è maliziosamente evocato dai quattro imponenti cilindri, associabili a un astratto ordine tuscanico» osserva Claudia Conforti: Il Gallaratese di Aymonino e Rossi (1981).
Le quattro colonne cilindriche esagerate, del diametro di un metro e ottanta, sono splendide nella loro semplicità e al contempo sono colpo di scena. Tra il terzo e quarto gradino, avviene la spaccatura tra i due corpi, una fessurazione luminosa di massima tensione. È il giunto di dilatazione: coincide con il taglio corrispondente alle colonne. Sulle scale mi volto e qui è il momento estremo di ombre e luci, sbalzi di volume. Dopo i ventitré gradini si può uscire di lato, in una delle piazze pensate da Aymonino e lassù, nel suo ballatoio dalle tinte rosso mattone (gli interni-choc sono rosso vulcano e giallo segnaletico), avvisto un gruppo di giapponesi che fotografa in questa direzione. Scappo sotto il porticato percorribile tutto, a passo distratto ma non troppo, in tre minuti. Mi rifugio a cercare ancora le ombre che con le occhiate di sole, si proiettano più lunghe e decise.