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Nella terra del ritorno
Claudio Visentin
La baia di Polis disegna un ampio arco circolare a metà della costa occidentale di Itaca, la terra di Ulisse. Ho perso il conto delle mie visite in questi ultimi dieci anni; d’altronde non è la terra del ritorno? Itaca ha una bellezza nascosta che si impara a riconoscere solo col tempo; in compenso non stanca mai e ogni anno il viaggiatore annota cosa è cambiato e cosa è rimasto uguale. Per esempio, grazie ai finanziamenti europei, trovo migliorato il piccolo porto di Piso Etos, un tempo scalcinato. Questa volta invece è chiusa l’incantevole locanda di Sofia ad Anoghi, accanto alla chiesa con il campanile veneziano e i meravigliosi affreschi dedicati alla dormizione di Maria.
Risalendo dal porto, sosto lungo la strada che corre alta lungo il fianco della montagna, il Nerito, «sussurro di fronde» nel racconto dell’Odissea. Sotto di me si distende la baia di Polis. La limpidezza delle acque e i riflessi del sole creano un’impressione metafisica.
Una vasta pianura si distende dall’insenatura verso l’interno dell’isola. Il nome in greco del luogo ‒ Polis, ovvero città ‒ non lascia dubbi. Qui in un tempo remoto, di fronte al porto, sorgeva una città di una certa importanza, dove si celebravano giochi e gare legati alla figura di Ulisse. Ma poco o nulla è rimasto di quel remoto passato, testimonianza evidente della vanità delle vicende umane.
Scendo verso la baia. Un modesto stabilimento balneare occupa la maggior parte dello spazio. Una capanna di legno, sporca e disordinata, pretende di essere l’ufficio di un improbabile Beach Manager. Avanzo tra gli ombrelloni camminando sui ciottoli della spiaggia.
Alcune barche dondolano pigramente nell’insenatura, ben protetta dai venti. Giunto sull’altro lato, dopo essermi lasciato alle spalle tutti i bagnanti, un rientro nella roccia segnala la posizione di un’antica caverna. Trattengo a stento l’emozione. La geografia dell’Odissea è controversa e assai discussa dagli specialisti, anche con toni accesi.
Del resto è ingenuo cercare corrispondenze immediate; il lunghissimo intervallo di tempo trascorso (oltre tremila anni!) ha trasformato i luoghi in profondità. E, senza tornare troppo indietro, nel 1953 un devastante terremoto ha distrutto la maggior parte degli edifici e mutato l’aspetto di molte parti dell’isola, avviando una dolorosa fase di emigrazione verso Paesi lontani (Canada, Australia). Ma quest’oggi, per forza d’immaginazione, la grotta è davanti a me, nonostante la volta sia franata in mare in tempi lontani.
Questa caverna era sacra alle ninfe, le Naiadi, ed era frequentata già in tempi antichissimi, prima ancora di Ulisse. Secondo la leggenda aveva due entrate, una per i mortali, a Occidente, l’altra a Oriente riservata agli dei. Per lungo tempo questo fu l’ultimo luogo conosciuto, l’estremo lembo occidentale della civiltà greca, proteso «verso la notte» e l’ignoto. Da qui i navigatori spiccavano il grande balzo oltre il Tirreno, verso la futura Magna Grecia.
Qui i marinai sacrificavano grassi animali alle Ninfe, per guadagnarsi il loro favore. Qui Ulisse, profondamente addormentato, viene lasciato dai Feaci, che lo hanno soccorso e aiutato a compiere il ritorno, dopo dieci anni spesi nella guerra di Troia e dieci in viaggio, tra pericoli, incontri, avventure. Qui, su consiglio di Atena, egli nasconde i doni ricevuti da Alcinoo. E qui, insieme alla dea, tesse il piano per ristabilire l’ordine e la giustizia, per riconquistare il palazzo, il trono e il suo ruolo di sovrano, marito, padre.
Sostando sotto gli ulivi secolari, si avverte potente lo spirito del luogo. Per mancanza di alternative, lo chiamo Genius loci, prendendo a prestito un termine familiare agli antichi.
I nostri antenati avvertivano facilmente queste presenze, ma noi abbiamo perso questa capacità. Entriamo nei luoghi senza preparazione e li «consumiamo» banalmente, alla stregua di ogni altra merce. Ai più semplicemente non interessano neppure.
Anche in questo tardo agosto, solo una coppia si aggira smarrita con una guida in mano. «È qui?» chiedono. «È qui», rispondo. Ma non saprei dire neppure io cosa esattamente sia rimasto. Forse le Ninfe si sono solo nascoste; forse tacciono, perché nessuno le ascolta più.