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Elogio della dolcezza, o anche solo del garbo
Carlo Silini
Qualche giorno fa la consigliera comunale di Zurigo Sanija Ameti ha creduto – anche se solo per un attimo – che «il tiro a segno sulla Madonna con bambino» fosse un atto provocatorio d’alta valenza politica. La 32enne aveva postato su Instagram foto di se stessa mentre sparava all’immagine di una Madonna col bambino. Sommersa dalle critiche, si è opportunamente dimessa dal Comitato direttivo dei Verdi liberali del Canton Zurigo. Imparando – speriamo – che per crivellare di colpi un’immagine sacra che è anche un’opera d’arte, cioè per infliggere un torto alla sensibilità religiosa e alla bellezza nello stesso tempo, servirebbero motivazioni un po’ più serie del suo «sparo per rilassarmi».
Data l’esiguità delle spiegazioni rilasciate dall’interessata, forse non sapremo mai le ragioni reali del gesto (anticlericalismo? narcisismo? effetti di una sbornia girata male? pura e monumentale idiozia?). Ma neppure ci interessano.
Un fatto simbolico però, in questa vicenda ci interpella in modo particolare: l’idea assai diffusa, a giudicare da quanto si vede sui social, che la rappresentazione di un gesto disturbante e/o violento possa suscitare se non ammirazione, almeno un certo fascino. Come se l’esibizione della forza senza controllo, della distruzione ingiustificata, della rissa, del vandalismo o della sopraffazione fosse un segno di valore, un’attestazione meritoria. Da rispetto camorristico, quasi: valgo perché me ne frego, perché non ho norme, perché con me non ti conviene scherzare. Uomini e donne «forti» perché ringhiosi, armati, sprezzanti. Gente che spara alla Madonna per noia.
Magari sbagliamo, ma le persone che veicolano questa immagine di sé, più che pericolose sono bugiarde. Anelano, come tutte, alla loro quota minima di tranquillità sociale ed esistenziale, sognano carezze e coccole, ma se ne vergognano. Perché esibire sensibilità viene curiosamente interpretato come prova di debolezza.
Per essere dolci, nei tempi feroci che viviamo, bisogna essere molto sicuri di sé, non temere il dileggio e il fraintendimento a cui si va incontro ogni volta che ci si mostra empatici, aperti e disponibili. Se sei «buono» qualcuno dirà che sei «troppo» buono, ergo «buonista», ergo stupido: una o uno che si fa fregare da tutti. Anni fa un amico romando si era inventato una nuova etimologia del termine francese «douceur», dolcezza, pretendendo che contenesse la parola latina «ducere», condurre, e che quindi nella sua essenza la dolcezza fosse un atto direttivo di forza, non di abbandono, o peggio, di mollezza. Ipotesi suggestiva, ma linguisticamente infondata. L’intento era ottimo: nobilitare a posteriori la parola stessa «dolcezza», mostrarne la forza nascosta. In realtà non ce n’era bisogno.
Un giovanissimo influencer italiano della cultura classica, Edoardo Prati (ha solo vent’anni), apparendo nei mesi scorsi in una nota trasmissione televisiva italiana proponeva un’intelligente e opposta lettura della realtà. «Uno dei sintomi della felicità – diceva – è la dolcezza. La suavitas come viene definita dai latini, il garbo». E citava lo storico e scrittore dell’antica Roma Cornelio Nepote (nato circa il 100 a.C. e morto verso il 27 a.C.) che nella sua Vita di Attico (un altro importante storico romano) a un certo punto dice di lui che «studiava poesia per non rimanere digiuno della sua dolcezza. E questo è interessante perché oggi nella nostra scala di valori la dolcezza non appare mai, ma in realtà è la dolcezza che catalizza il rapporto tra le persone e senza rapporto non c’è società».
Mettiamo per favore un po’ di poesia e di dolcezza nella nostra vita. E qualcuno vada a spiegarlo agli altri influencer (politici inclusi) che mostrano i muscoli, e all’occorrenza, i pistoloni sulla trafficata platea virtuale di Instagram.