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In marcia coi facchini di Santa Rosa
Claudio Visentin
Viterbo, un giorno d’agosto. A Porta romana la Macchina di Santa Rosa riverbera nel sole del tardo pomeriggio. È difficile descrivere questo oggetto meraviglioso e imponente. Immaginate una torre alta trenta metri e pesante cinque tonnellate, decorata con statue, luci e simboli religiosi (croci, angeli eccetera). Santa Rosa è la patrona di Viterbo, morta a soli 18 anni il 6 marzo 1251, indossando l’abito dei terziari francescani. Di lei si tramandano gesta bellicose e miracoli; la sua figura oscilla tra la giovane innamorata di Dio e una Giovanna d’Arco della Tuscia, schierata in difesa del papato contro ghibellini e catari. Sepolta senza bara nella chiesa di Santa Maria in Poggio, un anno e mezzo più tardi il suo corpo fu recuperato incorrotto (si dice) e portato in processione nella Chiesa a lei dedicata. Quell’evento è rievocato ogni 3 settembre in un corteo che si snoda per oltre un chilometro attraverso le vie della città: il Trasporto della Macchina di Santa Rosa. Anche se la canonizzazione tarda (per ora Rosa è solo beata) i viterbesi l’amano con intensità e trasporto (appunto).
Meglio è andata alla Macchina, che dieci anni fa è stata riconosciuta Patrimonio immateriale dell’umanità Unesco. Col tempo il baldacchino con la statua della santa ha assunto forme sempre più ardite ed elaborate. Inoltre viene regolarmente rinnovato, come mi racconta l’architetto Raffaele Ascenzi, il progettista della nuova macchina che farà il suo esordio nel 2025 e verrà poi utilizzata per i prossimi anni. È la terza volta che Raffaele vince la gara pubblica per questo ambitissimo incarico e a Viterbo è ormai una star. La sua creatura è una strana mescolanza di modernità e tradizione. La statua della santa, colta in diversi momenti della sua vita, è ripetuta tre volte a differenti altezze.
Come ricorda con orgoglio, prima di diventare progettista Raffaele è stato un semplice facchino, come testimoniano gli avambracci muscolosi sotto la maglietta. Si chiamano Facchini di Santa Rosa, i cento uomini che portano a spalla la Macchina lungo il percorso che attraversa il centro storico di Viterbo, sfiorando case e chiese. Per essere scelto, ciascun facchino deve riuscire a sollevare e trasportare un peso di un quintale e mezzo senza smorfie di fatica. Sulla carta basterebbe mezzo quintale, tuttavia nei diversi momenti del tragitto il peso della gigantesca macchina non è distribuito proporzionalmente, ma grava in misura maggiore o minore sui singoli facchini. Già di suo, il trasporto della santa è molto impegnativo e richiede forza, coordinazione, spirito di squadra; ma nei momenti più difficili, quando ti sembra che tutto il peso gravi sulle tue spalle, soccorre solo una profonda devozione per la santa.
Il trasporto inizia un’ora dopo il tramonto della vigilia della festa di Santa Rosa. I facchini ricevono dal vescovo la benedizione in articulo mortis («sul punto di morte»), poi s’infilano sotto la gigantesca struttura e la sollevano con uno strappo nella mossa. Le luci della città si spengono e la macchina, illuminata da centinaia di fiaccole, avanza fendendo il buio, mentre la folla applaude e incoraggia. Durante il trasporto si effettuano cinque fermate e girate, per mostrare meglio la macchina. L’ultimo tratto consiste in una via in salita, affrontata a passo sostenuto. Infine, con uno sforzo finale, la Macchina viene sollevata e depositata davanti al santuario.
Nella settimana precedente il trasporto, la vita di Viterbo gravita interamente intorno alla santa. In città non si parla d’altro, tra preparativi e pronostici, e anche i viterbesi emigrati cercano di tornare per l’occasione. Nessuno bada ai forestieri, che pure accorrono numerosi attratti dallo spettacolo barocco e inconsueto. Il turista, abituato a essere al centro della scena in altri momenti dell’anno, diventa un’ombra sfuggente. Qualcosa di simile ‒ una benevola tolleranza e un sostanziale disinteresse ‒ l’ho sperimentato anche in occasione del Palio di Siena. Eppure, non ho sofferto ritrovandomi nel ruolo di puro spettatore. Mi è sembrata anzi la garanzia dell’autenticità dello spettacolo, laddove spesso mi propongono banali messe in scena. Quando ci si preoccupa troppo dei turisti ‒ penso tra me e me ‒ la vita locale perde freschezza e spontaneità, diventa un prodotto da consumare. Molto meglio allora questa passione fanatica e disinteressata per la santa ragazzina.