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I giornali e i loro irrinunciabili usi alternativi
Carlo Silini
Anni fa, scherzando ma non troppo, in un turno cosiddetto «di chiusura» nel quotidiano per il quale lavoravo, abbondantemente dopo la mezzanotte, assieme a un collega ho provato ad elencare tutti i possibili usi non giornalistici del giornale di carta, tipo infilarlo sotto la giacca d’inverno quando si va con lo scooter, collocarne le pagine aperte sul pavimento quando si dipinge una parete, farne un cappellino a forma di barchetta quando c’è troppo sole, usarlo come materia prima per i lavoretti di carta pesta.
Un quotidiano cartaceo, così come un settimanale, ha sempre una buona ragion d’essere. Si potrebbe lanciare una campagna pubblicitaria, basata sul concetto del riciclo: «…e dopo aver letto le pagine di “Azione”, potrete farvi un simpatico copricapo, uno schermo termico anti gelo, uno strato anti schizzi di pittura…».
Fino a quando dureranno i giornali di carta ora che l’informazione la trovi sempre online, apparentemente gratis? Fino alla fine dei tempi (o della carta) perché siamo esseri fatti di carne e abbiamo bisogno di materia. Così come gli e-book non hanno soppiantato i libri cartacei, l’informazione elettronica non può sostituire quella su carta. Perché è impalpabile, iper diffusa, mimetica. Ci sono siti di informazione serissimi, ma la gente su internet cerca le notizie prevalentemente sui social, non sulle singole testate. E sui social è tutto un mix di vero e falso, di notizie affidabili e disinformazione. Questo genera confusione, fraintendimenti, bugie. E, di conseguenza, scelte private e pubbliche sbagliate, perché basate o sulla mistificazione o sull’impossibilità di distinguere facilmente le informazioni fondate da quelle farlocche. Nel reale, ergo nel cartaceo, hai più controllo sui media: prendi in mano un giornale e sai chi applaudire o con chi arrabbiarti per quello che leggi. Se scegli una testata seria, dopo averla consultata impari qualcosa che prima non sapevi. Nel frullatore del web con chi te la prendi: con Facebook?
Occorre ricordarsi che le più grandi idee della modernità sono state scritte e stampate su carta, che le parole virtuali volano nel web e, al di fuori di una testata riconosciuta, non riesci quasi mai a soppesarne la fondatezza. Lo scrivo con tristezza constatando che anche in Svizzera sono tempi grami per i media tradizionali.
Qualche giorno fa il gruppo editoriale Tamedia, filiale del Gruppo TX, ha annunciato il taglio di 200 posti di lavoro nel settore della stampa, e di altri 90 nelle redazioni. In dicembre anche CH Media aveva comunicato la cancellazione di 140 posti nella Svizzera tedesca; l’impresa zurighese Ringier di 55; e il gruppo ESH Médias (editore dei quotidiani romandi Nouvelliste, Arcinfo e La Côte) di un’altra trentina. Il Ticino ha visto negli ultimi anni la chiusura del «Giornale del Popolo», del «Caffè» e di «Ticino Management», oltre a licenziamenti alla RSI e al «Corriere del Ticino». Chiaro che «il prerequisito per un giornalismo indipendente di qualità è la sostenibilità economica», come ha spiegato l’altro giorno la CEO di Tamedia, Jessica Peppel-Schulz. Ma un conto è far quadrare i bilanci, un altro è sacrificare l’informazione sull’altare del massimo profitto. Il sindacato Impressum ha fatto sapere che le redazioni di Tamedia generano un rendimento del 2% in tutta la Svizzera: era davvero necessario calare la mannaia?
Se il panorama mediatico svizzero si indebolisce a perderci è la capacità collettiva di capire il territorio e il mondo intero. In definitiva, la qualità stessa della nostra democrazia. Salviamo i media, decodificatori di un’attualità complessa, cani da guardia del potere, coscienze vigili e analitiche del pianeta. E, alla peggio, praticissime fonti di cappellini, schermi antifreddo e altre irrinunciabili utilità.