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Pieni di rabbia

/ 02/09/2024
Paolo Di Stefano

Che rabbia. La rabbia è un sentimento dei nostri giorni. Ondate di rabbia sociale in Inghilterra; Hamas ha invitato a una «giornata di rabbia» in Cisgiordania contro i coloni; in Israele si scende nelle strade per urlare la rabbia contro Netanyahu; dopo l’attentato di Solingen, il cancelliere Scholz ha espresso la rabbia del popolo tedesco contro gli islamisti; gli antagonisti americani scendono in piazza per protestare con rabbia contro le forniture di armi a Israele; ogni giorno la malasanità fa arrabbiare i cittadini italiani e quasi ogni giorno i penitenziari esplodono di rabbia per il sovraffollamento; la lunga crisi politica francese favorisce la rabbia della «gauche». E si potrebbe continuare. Guai a non prenderla sul serio, questa rabbia montante ovunque contro qualcuno o qualcosa. 

E gli adolescenti? «Vorrei che non ci fosse età di mezzo fra i dieci e i ventitré anni, o che la gioventù dormisse per tutto questo intervallo; poiché non c’è nulla in cotesto tempo se non ingravidare ragazze, vilipendere gli anziani, rubare e darsi legnate». Così diceva un vecchio pastore nel Racconto d’inverno di Shakespeare (6 di stima)Tutti i genitori sottoscriverebbero e ne approfitterebbero per dormire anche loro almeno per un po’. Il fatto è che l’affermazione del pastore shakespeariano non basta a contenere l’universo degli adolescenti d’oggi e l’avvilimento speculare dei genitori. Intanto, perché si trattava decisamente di un punto di vista maschile, che prendeva in considerazione solo i ragazzi (ingravidatori) tralasciando le ragazze (ingravidate). E poi perché la rabbia giovanile dei nostri tempi comprende non solo la violenza e la trasgressione ma anche la fragilità, l’iperattività, la vergogna e la tristezza depressiva: il che complica tutto. E come se non bastasse, l’altra complicazione è che alla fragilità dei figli si aggiunge la fragilità dei genitori, sicché la rabbia viene per lo più repressa e non si traduce in ribellione ma in reciproca dipendenza, spesso frustrante al punto da diventare patologica. Ce lo spiega molto bene (5+) Alfio Maggiolini in Pieni di rabbia (Franco Angeli editore).   

Un servizio di Marco Archetti apparso sul «Foglio» il 27 agosto fa un catalogo dell’ira d’autore, soffermandosi in particolare sulle lettere di Dostoevskij e di Beckett. In realtà, se ne deduce che per troppi autori, almeno nel privato, la rabbia diventa lagna e lamento. «Lamentodromo e grande cerimonia querimoniale, ogni epistolario è un capitolo della lagnanza d’autore in tutte le sue forme» (4- alla lagnanza d’autore). Contro di sé e contro gli altri. Un esempio deleterio (per quanto sincero) di affrontare da padre la rabbia propria e del figlio, ce lo offre proprio Dostoevskij, quando scrive a Pavel: «Ti penso e sono così in apprensione che non so dove mettere le mani. Avveleni la mia vita con la tua disobbedienza e mi impedisci di vivere. Tu te ne infischi della mia angoscia». Beckett se la prendeva piuttosto con i colleghi scrittori. Per esempio, con Proust, del quale lo scrittore irlandese non sopportava il «lacrimoso gloglottio con dentiera di un ventre colicoso che evacua», precisando che «contemplare le sue sedute al cesso per sedici volumi» non era proprio il massimo. Stessa bile contro Balzac. Rabbie d’artista indubbiamente originali.

C’è la rabbia distruttiva e quella costruttiva. Si incontra molta rabbia (civile) in una bella antologia a cura di Erri De Luca, intitolata Grido, non serenata, poesie di lotta e resistenza (Crocetti editore, 5+ all’antologia, dove si fanno molte scoperte; 6 all’editore, resistente pure lui come i suoi poeti). «Vecchio mondo, come un cane tignoso / stenditi che ti abbatto!» scrive nel 1918 il poeta di San Pietroburgo Aleksandr Blok. «Noi siamo gli ultimi del mondo. – Ma questo mondo non ci avrà» è Franco Fortini che riscrive l’Internazionale nel 1968. «D’un tratto gridò / che non era il destino se il mondo soffriva, / se la luce del giorno strappava bestemmie» è il fumatore di carta cantato da Cesare Pavese. «Non c’è che un milione di fabbri / che fabbricano catene per i bambini del futuro» è l’urlo di Federico García Lorca. È passato quasi un secolo, ma potrebbe essere un allarme per i bambini di oggi, tristi, fragili, iperattivi, pieni di rabbia. E per i loro genitori.