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Lo spirito indomabile di Angelica Balabanoff

/ 19/08/2024
Melania Mazzucco

Nella notte del 25 novembre 1965, in un appartamento di Montesacro, a Roma, muore un’anziana straniera. Viveva modestamente e i suoi vicini ignoravano chi fosse. Ai funerali in piazza del Popolo, tuttavia, partecipa una folla rispettosa e commossa. Il presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, ha mandato una corona di fiori: «Alla cara Angelica Balabanoff» (nell’immagine). Ai giovani italiani il suo nome era ormai sconosciuto (e lo è tuttora: le hanno dedicato una via ma non figura tra le «personalità illustri» sepolte nel cimitero acattolico di Testaccio, che si raccomandano di visitare). Invece quella donna minuta (era alta poco più di un metro e mezzo) aveva uno spirito indomabile, un carattere di ferro, un’intelligenza non comune e aveva attraversato da protagonista le bufere del Novecento. 

Nata nell’Impero Russo in un anno mai precisato fra il 1870 e il 1878 (le donne e i rivoluzionari hanno, per ragioni diverse, necessità di alterare i loro dati anagrafici), era l’ultima figlia di un ricchissimo uomo d’affari e proprietario terriero ebreo. La madre, Anna (che aveva avuto sedici figli, anche se non tutti erano sopravvissuti), era una filantropa, che si prendeva cura dei poveri negli ospizi e dei diseredati, ma anaffettiva e severa con la figlia per la quale sognava un matrimonio aristocratico. Angelica, confinata a Chernigov (oggi Chernihiv, in Ucraina), affidata a istitutrici scialbe che dovevano insegnarle il francese, il pianoforte e in generale le buone maniere, è però sensibile all’ingiustizia sociale, percepisce l’enormità dei privilegi di cui gode, ed è curiosa di conoscere ciò che esiste al di fuori del mondo dorato in cui la nascita sembra averla destinata a vivere. Ottiene di studiare in una scuola pubblica: ma non basta. Con l’adolescenza, i conflitti con la madre si inaspriscono. Finché la ragazza ribelle lascia la famiglia (e il suo paese) per andare a studiare alla Nuova Università di Bruxelles, crogiolo di idee anarchiche e socialiste. Al momento della partenza, la madre la maledice. Angelica non avrà mai modo di ricomporre la lacerazione.

In Italia arriva nel 1900, dopo alcuni anni di studi in Belgio e in Germania (a Lipsia e Berlino). A Roma si ambienta subito e si sente – d’istinto – a casa. Diventa allieva e discepola di Antonio Labriola, si laurea in lettere e filosofia, si iscrive al Partito Socialista. Conosce Anna Kuliscioff, anche lei di ricchissima famiglia ebrea ucraina e pilastro del socialismo italiano: tuttavia le due donne non fraternizzano. Troppo radicale, Angelica: il termine del tempo era «massimalista». La politica diventa missione quasi religiosa: Sceglie l’apostolato fra i proletari e gli operai. Rompe definitivamente con l’origine: dopo la morte della madre, rinuncia all’eredità in favore dei fratelli, in cambio di un vitalizio, che le viene versato ogni mese. Non vuole avere più nulla a che fare con la borghesia, e nemmeno con la famiglia: un’istituzione che rifiuta. L’amore è libero (ma i rivoluzionari non hanno figli). Sul palco, davanti alla folla, la piccola Balabanoff si rivela un’oratrice trascinante – che soggioga e scuote. Associazioni, sindacati, cooperative cominciano a invitarla a tenere comizi, commemorazioni, lezioni. È così che nel 1903, a Losanna, conosce un emigrato italiano vestito di stracci, famelico, irrequieto. I compagni glielo descrivono come un disgraziato, con problemi di salute, ultimo fra gli ultimi, «un certo Mussolini». 

(Fine prima parte)