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Il bosco di Tamangur
Oliver Scharpf
Parto da S-charl, piccola frazione distantissima di Scuol non poi così lontana dal mio cognome e un tempo villaggio minerario: piombo e argento. Scorta d’acqua alla fontana più una sorsata guardando il cielo e via. A fianco della Clemgia che scorre spumosa percorrendo questa valle laterale che collega la Bassa Engadina con la Val Monastero. Molti in bici, diversi camminatori, tre pescatori a mosca. A un certo punto non incontro più nessuno e trovo scritto per la prima volta, sul cartello, il nome magico, tra l’esotico e il finnico, del bosco di cembri dove sono diretto. È il bosco di cembri più alto d’Europa e similitudine del romancio morente in una poesia di Peider Lansel intitolata proprio Tamangur (1923).
Per una volta, le cose sono andate per il verso giusto: il romancio, dal 1938 è lingua nazionale – e il God da Tamangur che sale fino a 2300 metri, mi sembra, a un primo sguardo, più vivo che mai. Grazie anche a Peider Lansel (1863-1943): poeta mezzo pisano perché nato a Pisa da genitori emigranti – droghieri – era originario di Sent dove passava tutte le estati e dove poi tornava a vivere con digressioni a Ginevra e una parentesi come console svizzero a Livorno. Oltre alla poesia-chiave per il destino di quel bosco e del romancio, ormai intrecciati a vita, si è battuto molto per salvare questa lingua retoromanza che a me sembra sempre molto buffa e fiabesca.
Prima di perdermi tra i dschembers, preludio di cavalli al pascolo e fischi di marmotta: ne becco una, impettita, sull’attenti, accanto un’altra, impietrita; poi spariscono nello loro tane. Dentro Tamangur, verso l’ora del tè, mi tornano in mente gli ultimi versi in vallader della prima sestina di Lansel letti ieri notte e tradotti stamattina in viaggio: «Una schiera così non si trova da nessuna parte/ ultimo avanzo di un bosco, detto: Tamangur». Toponimo taumaturgico ripetuto come un mantra alla fine di ogni strofa che significa, secondo alcuni, «il rifugio del minatore», per altri «la baita del monaco» mentre c’è chi sostiene che God da Tamangur vorrebbe dire «il bosco là dietro» . Per me Tamangur mostra tutti i limiti della toponomastica e Tamangur vuole solo dire Tamangur.
Cembreto-meraviglia dentro il quale cammino una fine pomeriggio d’agosto. Verde argenteo trafitto dalla luce, cortecce rossicce, radici contorte ultrasecolari, arabeschi di licheni sospesi, profumo resinoso-letargico, tronchi divelti come relitti. Vago con lo sguardo tra Pinus cembra ottocenteschi e alcuni di ottocento anni, passati attraverso chissà quante tempeste, metri di neve, valanghe, venti, frane, lampi. Qui vengono accolte le anime dei cacciatori, come il nonno della bambina protagonista, assieme alla nonna, di un romanzo breve di Leta Semadeni intitolato anche Tamangur (2015). Un altro cantore di questo bosco estremo, esempio di tenacia, è Domenic Feuerstein, Der Arvenwald von Tamangur (1939): foto in biancoenero ritraggono questo mondo di alberi capovolti con radici in aria come zanne di mammut.
Ritrovo, in giro, quell’aura totemica e primordiale dei tronchi di cembri morti da tempo. Persa la sembianza di cembro, lisci e color quasi d’avorio, diventano sculture. Altra vittima dell’aura di Tamangur è Not Vital, nel cui castello d’artista a Tarasp vi avevo portato quest’inverno dimenticando di raccontarvi che nella sala da pranzo, in un angolo, c’è, in piedi, un ramo pennellato di bianco e otto lettere alle estremità: con lo sguardo, saltellando da una lettera all’altra, potete unirle e comporre il nome di questo luogo dove ora devo cercare un posto per accamparmi. Prima però, ecco il vero capolavoro: un pino cembro sopravvissuto al fulmine.
Verso sera sbuco in una piccola radura, insperata, in corrispondenza del Piz Amalia. Monto la tenda verde cembro. Un capriolo mi guarda per cinque sei secondi, poi scappa via abbaiando. Da queste parti girano anche lupi e orsi. A cena divoro un’insalata pantesca e vado a letto con le galline. Le vacche dell’Alp Astras invece, non dormono ancora. Il tintinnabulo bovino dei campanacci, in lontananza, concilia il sonno. Se per l’odore del legno di cembro, talismano di tutto l’arco alpino, esistono studi riguardo l’effetto pacificante sulla psiche, nessuno dice niente sul dormire tra i cembri. Mi sveglio nel cuore della notte, metto fuori la testa – come un cucù – per un interludio di cielo stellato.