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Congedo dai padri

/ 06/08/2024
Paolo Di Stefano

Gianmarco Tamberi, detto Gimbo, recordman di salto in alto, per anni si era allenato con suo padre Marco. Poi lo ha licenziato e ha scelto un altro coach. Sulla simpatia estrosa di Tamberi (2) sono stati scritti, negli anni, articoli molto ispirati: io mi sono fatto l’idea che, pur essendo senza dubbio un grande atleta, Tamberi non sia un campione di simpatia: del resto le due cose raramente coincidono (vedi alla voce Djokovic, 3).

Licenziare il proprio padre non è facile, ma a volte è indispensabile: dipende quali sono le ragioni, se ci sono. «Non ne potevano più l’uno dell’altro», ha detto la moglie di Gimbo. Al contrario, licenziare i propri figli è impossibile. Vedi il caso di Nicola Turetta, il padre dell’assassino di Giulia Cecchettin, la ragazza veneta che mesi fa fu torturata, imbavagliata, pugnalata dal suo fidanzato. Si è saputo che, quando è andato a trovare Filippo Turetta in carcere, suo padre gli ha detto parole che nessuno, da fuori, potrebbe mai condividere: «Hai fatto qualcosa, però non sei un mafioso, non sei uno che ammazza le persone, hai avuto un momento di debolezza. Non sei un terrorista. Devi farti forza. Non sei l’unico. Ci sono stati parecchi altri».

Su alcune di queste negazioni ci sarebbe da obiettare: non sei «uno che ammazza le persone» se ammazzi la tua fidanzata con oltre settanta coltellate alla testa e al collo? Anche il declassare quella violenza brutale a semplice «qualcosa» e a un «momento di debolezza» è piuttosto discutibile. Il fatto che «parecchi altri» hanno commesso un delitto simile non è un’attenuante. Ma è discutibile soprattutto che un colloquio intimo tra padre e figlio, estraneo a qualunque interesse giudiziario, venga intercettato e divulgato dalle televisioni (1) e dai giornali (1). Quel povero padre senza colpa ha dovuto fare atto di contrizione pubblica, esprimere la sua vergogna per le frasi dette: precisare che erano suggerite dall’angoscia che suo figlio volesse suicidarsi.

La domanda è: si può continuare ad amare un figlio che ha commesso un’atrocità inenarrabile? Si può. E nessuno si permetta di interferire o di giudicare questo amore. Ricordo la dignità e il silenzio di Francesco De Nardo (6+), il padre di Erika, la ragazza di Novi Ligure che molti anni fa uccise la madre e il fratellino. Ma d’altra parte sarebbe sbagliato censurare papà Cecchettin, che invece ha preferito l’esternazione: avrà il diritto (che lui sente come un dovere) di raccontare il suo dolore, la sua storia e quella di sua figlia? Ci mancherebbe altro che non l’avesse. Libero poi ciascuno di noi, a seconda della sua sensibilità, di leggere o non leggere il suo libro.

Kafka scrisse una lettera al padre che non consegnò mai al destinatario (uscì postuma), ma questo non aggiunge e non toglie nulla alla eccezionalità di quel testo, in cui si sono riconosciute (e si riconoscono) generazioni di figli atterriti dall’autorità paterna, risentiti per la mancanza di tenerezza e di comprensione in cui sono cresciuti. Vi ricordate la sobrietà e la durezza di quella lettera?

«Carissimo padre, recentemente mi hai chiesto per quale motivo sostengo di avere paura di te. Come al solito, non ho saputo darti una risposta, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari…» (7+). Per misurare la distanza abissale che ci separa dall’inizio del secolo scorso, basti pensare che il padre di Kafka, se avesse avuto un figlio assassino, probabilmente non sarebbe mai andato a trovarlo in carcere e, anche se lo avesse fatto, non avrebbe mai pronunciato le frasi di pietà e di angoscia che ha pronunciato il padre di Filippo Turetta. Da allora è cambiato il mondo anche perché si sono capovolti i rapporti tra genitori e figli, particolarmente con i padri. Diventati talmente «fragili» da scusare un figlio assassino. Oggi i padri hanno paura dei figli almeno quanto Kafka aveva paura di suo padre.

(Qualche settimana fa il «New York Times» ha eletto L’amica fragile di Elena Ferrante (5-) romanzo del secolo, anzi di questi primi 24 anni del secolo. Il verdetto, molto discusso, ha generato classifiche alternative. Oltre a L’anno del pensiero magico di Joan Didion, tra i romanzi migliori del secolo segnalerei uno degli ultimi capolavori di Philip Roth, Patrimonio, uscito nel 2007: un doloroso, atroce congedo, un addio alla figura del padre.