azione.ch
 



Il VAR che non ti aspetti

/ 22/07/2024
Lina Bertola

È proprio vero che ciò che riusciamo a vedere in qualche modo è già dentro i nostri occhi: è qualcosa che, senza saperlo, già sappiamo e che, proprio per questo, desideriamo vedere affiorare nel nostro sguardo.

Ne erano ben consapevoli gli antichi filosofi e maestri di saggezza, Platone in primis, che intrecciava ogni conoscenza con un sapere già presente nell’anima. Era ben chiaro anche nelle splendide Confessioni di sant’Agostino, testimone e cantore di quella Verità che risuona dal nostro mondo interiore. E lo ha confermato, nel secolo scorso, la psicologia della Gestalt con le sue celebri immagini ambivalenti, ad esempio quelle ben conosciute dell’anitra/coniglio, o della giovane/vecchia, in cui riesci a vedere solo la figura che già hai negli occhi.

Questa ineludibile presenza di noi stessi ci accompagna sempre nel guardare il mondo, nel conoscerlo, nel cercare di comprenderlo e soprattutto nell’abitarlo e condividerlo. Della potenza inattesa di questo intimo sguardo ho potuto fare esperienza anche mentre seguivo le partite del campionato europeo di calcio appena concluso. Davanti allo schermo ho sperimentato in prima persona la presenza di qualcosa che già abitava il mio sguardo senza essere stato invitato. Ero lì, tutta intenta a inseguire le vicissitudini del pallone che danzava tra i piedi dei giocatori, ed ecco che un altro film si è impossessato dei miei occhi e li ha riempiti di altri frammenti inattesi di varia umanità. Una specie di «assistente» del cuore e della mente, un VAR che non ti aspetti, insomma, a squadernarmi dettagli che mi catturano e proiettano ciò che sto guardando dentro un altro panorama.

Come prigioniero di una moviola impertinente, il mio sguardo è stato catturato dalle mani. Catturato soprattutto da una scena ricorrente: quella di mani aperte che si protendono inermi e innocenti verso l’altro, arbitro o avversario che sia; mani che raccontano il rituale di un potente diniego: ti ho fatto cadere, sgambettato, strattonato, ti ho inflitto molte altre carinerie, ma le mie mani non lo sanno, non lo vogliono sapere e per questo mi stanno convincendo della loro verità. Lo dicono loro, io non c’entro con quello che ti è successo.

Ma altri fotogrammi mi hanno riempito gli occhi, partita dopo partita, a cominciare dal momento rituale degli inni nazionali in cui lo sguardo era subito catturato dal quieto silenzio di mani aperte, ospitali e contemplative, nell’accogliere le emozioni del corpo e della musica che le attraversava. E poco prima, da piccole mani timide ed emozionate di bambini, come fossero delicati e fragili fiori donati a mani grandi, in attesa di emozioni ancora indecifrate.

Molti altri ancora sarebbero i racconti possibili, capaci di custodire e di esprimere un di più della nostra umanità e di dar forma a quella sua infinita poesia, sempre piena di ambivalenze e di contraddizioni, in continua tensione tra la gratitudine e la bellezza e il loro rovescio.

Per quanto riguarda il mio racconto parallelo, capisco ora che la narrazione inattesa che mi ha accompagnata durante le partite mi ha permesso di restare in contatto con un sapere originario custodito nelle radici della nostra civiltà: con quello sguardo inaugurale dei primi filosofi in cui le mani erano state riconosciute come un luogo simbolico, non solo fisico, della specificità degli esseri umani e della loro intelligenza. Con una straordinaria intuizione, già Anassagora di Clazomene, vissuto nel V secolo a.C., affermava che l’uomo è il più intelligente degli animali perché ha le mani, sorgente e insieme espressione dello sviluppo della ragione. Aristotele capovolge la prospettiva. L’uomo ha le mani perché è il più intelligente degli animali: la natura non fa nulla invano e distribuisce agli animali quanto sono in grado di usare.

Pur nelle sue profonde differenze, la cultura greca apre uno spazio di pensiero in cui le mani assurgono a espressione anche simbolica dell’intelligenza. Nel De anima Aristotele arriva a sostenere che l’anima è come la mano perché la mano è lo strumento degli strumenti. Il filosofo Sennett ricorda che Renzo Piano ebbe a dirgli: «faccio edifici molto complessi ma io disegno sempre a mano; è in questo modo che imparo a conoscere l’oggetto a cui lavoro».

La mano sente, la mano pensa, è in contatto con l’essenza delle cose.

Così, mentre attendevo i verdetti di tanti VAR giudicanti, ho potuto accogliere una moviola segreta e complice, con la sua lentezza sapiente e ospitale che non giudica ma tiene vivo il legame tra le vicende del mondo e il nostro mondo interiore.