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La colonia e quella spianata brulla

/ 22/07/2024
Bruno Gambarotta

Siamo in spiaggia. Il più giovane dei miei nipoti nota che sono riluttante a entrare in acqua, è curioso di sapere quand’è stata la prima volta che ho conosciuto il mare. In colonia, rispondo. In colonia? Com’era?

Per tentare di ricordarmi qualcosa devo pensare al cibo. Chissà perché. La colonia estiva per me è un mattone di marmellata solida, di colore rossiccio, dalla quale una signorina taglia una fettina trasparente e me la spalma su una fetta di pane. La mia colazione. L’anno di quell’unica volta che sono andato in colonia? Quasi certamente il 1949, lo collego alla scomparsa del Torino. Avevo 12 anni e mia madre, con un negozio di parrucchiera ad Asti, era associata agli artigiani e da loro era arrivata l’offerta di mandare un figlio al mare, in colonia. Destinazione Arma di Taggia, da raggiungere in treno. Dalla stazione si dovevano percorrere un bel po’ di chilometri per arrivare alla meta: un grande edificio al centro di una spianata brulla e polverosa. Si capiva che fino a poco prima era stata una caserma perché sotto i cespugli del recinto si trovava ancora qualche bossolo di mitraglia contraerea, uguali a quelli da noi raccolti agli Sbocchi Nord di Asti dove c’era stata la postazione della contraerea.

Si andava al mare la mattina in spiaggia libera, dopo aver fatto colazione (la famosa fettina di marmellata solida). Il primo giorno cinque minuti in acqua e poi, al fischio delle signorine, fuori! Tutti quei chilometri a piedi per cinque minuti. Ma poi di giorno in giorno i minuti sarebbero aumentati fino a diventare un paio d’ore. Ci facevano attraversare Arma di Taggia camminando in fila per due, come tanti soldatini. Anche nella nostra città ci facevano andare in fila per due. Una volta all’anno, il 17 gennaio, quando, per festeggiare il compleanno di Vittorio Alfieri, ci portavano al teatro Alfieri, per assistere alla rappresentazione di una tragedia di Vittorio Alfieri. La professoressa ci spiegava che ogni anno era diversa, ma a noi sembrava sempre la stessa, che cambiassero solo il titolo sui manifesti. In ogni caso sempre di tragedia si trattava. Ci costringevano a sedere nelle prime file della platea per vigilare, guai a distrarsi. In loggione c’erano gli studenti del liceo Alfieri, loro al ritorno in classe avrebbero trovato il tema da svolgere. All’uscita, per consolarci, ci portavano alla gelateria Alfieri, la migliore della città, quella sotto i portici di piazza Alfieri, proprio all’altezza del monumento a Vittorio Alfieri. Forse è inutile precisare che Vittorio Alfieri, detto il Trageda, è nato ad Asti. Torniamo alla colonia. Per tranquillizzare le nostre famiglie, per far sapere che stavamo benissimo, che quella colonia era il paradiso in terra, le signorine ci fornivano di cartoline, quante ne volevamo. Bisognava scriverle e riconsegnarle, avrebbero provveduto loro a spedirle a destinazione. Dopo averle lette, naturalmente. C’era un modo per aggirare quell’odiosa censura. Affidare la cartolina, con il destinatario e il vero quadro della situazione, durante l’andata al mare in fila per due, a qualche signora incrociata per caso, lontano dagli occhi delle signorine. Sussurrando, con l’aria supplichevole del condannato ai lavori forzati: «È per la mia mamma, me la può spedire?» Sottinteso, dopo averla affrancata.

Le signorine nel pomeriggio ci lasciavano in pace, dal paese salivano dei giovanotti a far loro la corte. Quella grande spianata brulla ospitava interminabili partite a pallone.

Ero così scarso che per farmi accettare dal capitano di una squadra dovevo corromperlo offrendogli qualcosa da mangiare, sottraendolo dal mio deposito o da quello del mio compagno se lo trovavo addormentato. Anche così, il capitano che accettava di prendermi aveva diritto ad avere in squadra un giocatore in più, dodici contro undici. Il mio destino era di stare in porta. Anche l’altro portiere era una schiappa, le partite terminavano con punteggi astronomici. Il resto del tempo lo trascorrevo seduto su un gradino dell’ingresso e contemplavo per ore quel nulla, quello sterminato squallore della spianata polverosa e brulla. Non potevo saperlo ma quelle ore di meditazione mi sarebbero state utili come esercizio preparatorio. A vent’anni, per essere ammesso nella confraternita degli intellettuali, dovevi dimostrare di essere un cinefilo, di frequentare il cineclub, di esaltare come capolavori assoluti quelle micidiali coltellate inferte dagli ultimi film di Michelangelo Antonioni.