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Chi sono gli schiavi d’Occidente

/ 15/07/2024
Orazio Martinetti

Nelle società occidentali post-industriali il lavoro manuale è ormai largamente appaltato a manodopera straniera. Basta risalire come segugi le cosiddette filiere per ritrovare, all’origine, la mano dell’immigrato, in condizioni che spesso si avvicinano allo schiavismo. «Schiavo» è categoria evocatrice di età barbariche, difficile da accettare nell’Occidente che ama qualificarsi come la patria dei diritti dell’uomo e del cittadino. Come alternativa alcuni studiosi propongono la nozione di «neoplebe», intendendo con questo termine una platea molto eterogenea, in cui confluiscono lavori subalterni, regolari ed irregolari, comunque intermittenti, sempre in bilico tra stabilità e precarietà. Certo è che queste patologie lavorative non sono state ancora del tutto sradicate in numerosi settori produttivi, a partire da quelli meno trasparenti nei rapporti contrattuali. Nei campi e nelle serre di molti distretti agricoli mediterranei il flusso degli operai stagionali e la loro rapida rotazione finiscono per favorire l’arbitrio, l’inosservanza delle regole e la sottomissione al caporalato.

Sui recenti, drammatici casi di cronaca che si sono verificati nel Lazio non è il caso di tornare: i media ne hanno parlato a lungo. Qui si vorrebbe piuttosto richiamare l’attenzione sui movimenti che interessano il nostro piccolo mercato del lavoro. Uno sguardo non tanto statistico (in proposito esistono ottimi studi: sulle differenze salariali, la disoccupazione, le nuove forme di povertà) quanto storico e sociologico. Il Ticino è da oltre cinquant’anni un Cantone in cui la quota maggioritaria della popolazione attiva è occupata in attività terziarie. Il che significa impieghi statali e parastatali, scuole, servizi bancari e finanziari, comunicazioni, trasporti, commerci, ristorazione e alberghi, offerta turistica, apparato informativo ecc. Questa ascesa verso i piani alti della scala sociale (mobilità verticale) è stata favorita dall’ingresso massiccio nei piani bassi di braccia reclutate all’estero. I frontalieri hanno raggiunto negli ultimi anni un numero mai visto prima, circa ottantamila unità. La fascia di confine ha sempre attratto elevati contingenti di manodopera italiana, sia nell’edilizia che nelle manifatture (maglierie, calzaturifici, camicerie), poi chiuse per l’impossibilità di competere con le produzioni asiatiche. In seguito, cadute progressivamente le restrizioni che limitavano la libera circolazione, la concorrenza dei frontalieri ha raggiunto anche i comparti tradizionalmente presidiati dagli autoctoni, come la sanità nelle sue numerose declinazioni (chirurgia, cure infermieristiche, fisioterapia), l’architettura, l’insegnamento superiore (USI-SUPSI), i poli di ricerca, l’informatica. Tale «penetrazione» ha naturalmente allarmato coloro che si ritenevano garantiti e protetti, trasformando il senso di minaccia in voto di protesta. Il lavoratore straniero è così diventato un intruso, e nei casi peggiori un roditore avido e approfittatore, con immediati riflessi nel comportamento elettorale. La fortuna politica della destra (cantonale e nazionale) è in buona parte riconducibile all’incremento delle presenze straniere, e questo fin dai tempi dell’iniziativa Schwarzenbach.

La reazione xenofoba del cittadino che si vede scavalcato dal candidato di un’altra nazionalità o posto sotto ricatto è comprensibile, ma la politica non dovrebbe mai abbandonarsi all’irrazionalità e all’emotività. Bisogna riconoscere, come detto all’inizio, che tuttora le mansioni più umili, più faticose, più rischiose (vedi infortuni sul lavoro, alcuni anche mortali) sono svolte da stranieri, uomini e donne. Chiediamoci: chi sono, da dove vengono le persone che vediamo affaccendarsi nelle cucine e nelle mense, nei corridoi degli ospedali e nei servizi igienici, nella raccolta dei rifiuti, nelle stanze degli alberghi e delle case di riposo, sui ponteggi dei palazzi e lungo le strade ad asfaltare carreggiate; chi sono le domestiche e le «invisibili» badanti che tra mille sacrifici lasciano le loro famiglie per occuparsi degli anziani? Sappiamo che senza questo apporto il Ticino si sfascerebbe come un vecchio bottiglione impagliato, trascinando con sé anche le isole di privilegio. Essere consapevoli di questa situazione è già un segno incoraggiante, un primo passo per gettare le basi di un’azione politica che prenda atto dei profondi mutamenti in corso, demografici e sociali.