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Senza desiderio del futuro

/ 10/06/2024
Aldo Grasso

«Ci avete rubato il futuro» è il grido di dolore che, dopo Greta Thunberg, molti giovani continuano a ripetere. Mai come in questo periodo la politica e l’economia si sono occupati, almeno a parole, dei giovani. Eppure, mai come in questo periodo i giovani si sono trovati a fare i conti con una situazione difficilissima, al punto da farli dubitare di quello che proprio loro dovrebbero possedere più degli altri: la fiducia nel futuro.

Il domani ci interroga ogni giorno, con sempre maggiore angoscia, come se la nozione stessa di futuro recasse i segni di un disagio diffuso. Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l’individuo stesso è vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, come accade nelle nostre società, non dobbiamo più interrogarci sull’origine psicologica di questo malessere, ma sulla sua origine culturale e sociale.

L’uomo ha sempre immaginato il futuro. Lo ha fatto con un misto di speranza e paura, liberando la sua fantasia con racconti, utopie e progetti. Tracce di queste idee del futuro si trovano nelle più diverse opere dell’uomo: dalle tragedie antiche ai romanzi di fantascienza, dalle opere filosofiche ai manifesti politici, ma anche nel cinema e nel teatro, nelle architetture, nei dipinti e nella musica, fino ad arrivare alla serialità televisiva.

Il futuro è sempre stato, da quando l’uomo ha iniziato a immaginarlo, un luogo del tempo a cui affidare speranze individuali e collettive. Qualcosa, però è cambiato, specie per i giovani. Su di loro pesa una sorta di punizione, descritta visionariamente da Dante nell’Inferno: i dannati possono vedere non il presente, ma proprio il futuro. Essi vedono, «come quei che ha mala luce», le cose lontane, ma quando queste si fanno vicine, allora «vano» diventa il loro «intelletto». Diventa così impossibile «afferrare» il futuro, anche solo per un attimo, come se fosse un miraggio insostenibile.

Il fatto è che la realtà stessa è diventata insostenibile. «Lo sviluppo sostenibile è quello che consente alle generazioni presenti di soddisfare i propri bisogni senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri». Con queste parole, l’ex presidente della Commissione mondiale su Ambiente e Sviluppo delle Nazioni Unite, Gro Harlem Brundtland, aveva definito lo sviluppo sostenibile. Stiamo andando in questa direzione? A giudicare dai numeri, no. L’Italia, ad esempio, conta più del 21% di disoccupazione giovanile e i Neet, i giovani che non studiano e non lavorano, sono quasi il 30%, il dato più alto in Europa. I giovani che lavorano lo fanno accontentandosi di stipendi bassi che limitano fortemente la loro autonomia economica e di posizioni per le quali sono spesso sovra istruiti.

Come scrive Umberto Galimberti, «che dire di una società che non impiega il massimo della sua forza biologica, quella che i giovani esprimono dai quindici ai trent’anni, progettando, ideando, generando, se appena si profila loro una meta realistica, una prospettiva credibile, una speranza in grado di attivare quella forza che essi sentono dentro di loro e poi fanno implodere anticipando la delusione per non vedersela di fronte? Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura?».

Nonostante siano venute meno le grandi narrazioni – quei quadri di valori e di senso che venivano rappresentati in forma narrativa dalla politica e dalla religione e che costituivano un repertorio fondamentale per costruire la propria e altrui identità, – la narrazione sul futuro non ha diminuito la sua importanza nel veicolare modelli e valori, né tantomeno si è ridotto il consumo di storie. E proprio attraverso la produzione di storie – la tessitura reciproca delle storie – l’inconoscibile futuro viene costruito, inventato, immaginato. Il futuro si nutre delle storie e ha bisogno di immaginazione, trova sostanza nella negoziazione tra queste storie.

I giovani hanno bisogno di aiuti concreti, di certezze sul lavoro, ma è anche necessario riaccendere in loro il desiderio di pensare al futuro immaginandolo, di contribuire a costruirlo anche quando il futuro concreto non assume le sembianze che hanno immaginato: l’importante è che continuino a parlarne, a trasformarlo in un racconto.

Non c’è futuro senza desiderio del futuro. Una vecchia etimologia vuole che il desiderio discenda direttamente dalle stelle: il verbo latino «desiderare» è composto dalla particella intensiva «de» e da «siderare» (fissare intensamente le stelle). Il poeta dice che il desiderio è metà della vita e l’ombra di un desiderio ci segue sempre (noi stessi, forse, siamo l’ombra di un desiderio).