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Due colonne romane e mezza a Nyon

/ 20/05/2024
Oliver Schaprf

Alle 10.45 verso la metà di maggio arrivo a Nyon. Noviodunum, un tempo, al centro della colonia romana fondata verso il 50 o il 49 avanti Cristo. Il soggetto di oggi si è appena rivelato un buco nell’acqua. Ero venuto qui per un aggeggio-gioco balneare gigante che faceva furore negli anni Trenta sulla spiaggia di Ouchy, una specie di boa di due metri di diametro con un albero navale-scala sul quale i bagnanti si arrampicavano facendo pendere il tutto per poi tuffarsi nel lago. Ripescata nell’agosto 2017, quest’invenzione di un ingegnere di Berneck, vicino al lago di Costanza, tale Rudolf Frei, dimenticata sul fondo del Lemano a centoventidue metri di profondità, era stata collocata nel cortile all’entrata del Musée du Léman. Eppure, notizia di un attimo fa a cui non importerà a nessuno, ora si trova in un magazzino «per un restauro». Dal tono vago della signora alla cassa però, a proposito della data di ritorno, sembrava che se ne fossero finalmente liberati.

Venuto a Nyon per niente, vago smarrito sul quai infestato da sciami di moscerini. La sensazione di un pugno di mosche in mano si dissolve quasi subito: delle colonne romane incontrate per caso, una mezzoretta fa, nel tragitto per andare al museo del Lemano, mi sono rimaste negli occhi. Ritorno sui miei passi e la prima impressione è confermata, anzi. A Roma colonne così forse te le tirano dietro eppure qui, in quella posizione, inquadrando il lago in quel modo, sono qualcosa di singolare. Mediterranizzano tutto d’un tratto, con il contrasto del Monte Bianco innevato in lontananza e intorno, al posto dei soliti pini marittimi, tanti ippocastani. Esplanade des Marronniers si chiama infatti questo luogo. Al volo stabilisco la planimetria degli ippocastani ancora in fiore che tengono compagnia a queste colonne scanalate di ordine corinzio che si stagliano un po’ irreali nel contesto lemanico. Cinque ippocastani sono di una certa età, due non giovanissimi, altri cinque giovincelli, totale dodici.

Ventiquattro ore dopo – studiato questo posto per tutta la notte, nel mio campo base segreto, un alberghetto desueto a Évian, cercando ogni notizia possibile su internet e affinando la ricerca con alcuni libri trovati in biblioteca – ritorno al cospetto delle due colonne romane e mezza (401 m) a Nyon. Scoperte, a pezzi, da Edgar Pelichet (1905-2002) – talentuoso archeologo cantonale autodidatta, ex avvocato e fumatore accanito di Brunette i cui pacchetti morbidi, appiattiti a dovere, sono stati ritrovati da una giovane stagista pochi anni fa nelle anfore del Museo romano – in rue Delafléchère durante gli scavi svolti tra il 1939 e il 1944. E rimesse in scena qui, dopo averle rimontate pezzo per pezzo, con lo sfondo del Lemano e le fronde di alcuni ippocastani ottocenteschi, in occasione del bimillenario di Nyon, sabato cinque luglio 1958.

Adesso, nonostante il prato dell’Esplanade sia recintato perché appena seminato, stufo di contrattempi, m’infilo di lato, come un granchio, in un esiguo spazio lasciato libero e raggiungo, in punta di piedi, le colonne in stile flaviano. S’innalzano nel cielo minaccioso. Frammento di un forum secondario della Colonia Iulia Equestris, caduto in rovina e dissotterrato da Pelichet nei pressi di un mitreo ipogeo. E ricomposto, in occasione del bimillenario del cinquantotto festeggiato tenendo per buona la data stabilita dall’illustre Theodor Mommsen nella sua Storia di Roma (1854). L’anastilosi di questo pezzo di colonnata in calcare giurassiano del 50 dopo Cristo è opera dell’architetto-tennista (tre volte campione svizzero negli anni Cinquanta, trentacinque incontri giocati in coppa Davis tra singolo e doppio e perlopiù persi) Paul Blondel (1925-2013). Se da vicino, aguzzando la vista, si colgono le foglie di acanto del capitello, è da una certa distanza che si gusta meglio questa rovina-puzzle: messa in questo punto partorisce un paesaggio nuovo, magari molto da cartolina, però, per me, di puro incanto straniante. Non mi stanco di assaporare il contrasto tra il lemanico e l’angolo di mondo pseudo-Brindisi. Di certo gioca un suo ruolo, il pezzetto di trabeazione in bilico, con tanto di pregevole fregio vegetale. «Da nessun’altra parte in Svizzera, si trova un esempio più bello dell’arte flavia» mi dice una bambina prodigio a spasso con il suo bulldog francese di nome Juno.