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Montagne povere e montagne ricche

/ 20/05/2024
Orazio Martinetti

L’abbandono della montagna ha alimentato un lungo dibattito fin dalla seconda metà dell’Ottocento, con un’intensificazione nel secondo dopoguerra, epoca in cui assunse proporzioni giudicate irreversibili. Nel 1953 il direttore dell’Ufficio di statistica Elmo Patocchi illustrava le dinamiche in atto con queste parole: «Il Ticino è, di tutti i Cantoni svizzeri, quello in cui il fenomeno dello spopolamento si è affermato con maggiore crudezza. Esso ebbe inizio con le migrazioni in massa verso la metà del secolo XIX. Intieri villaggi, quasi intiere valli si svuotarono, perdendo gli elementi più validi. Una, due generazioni vennero a mancare. Come potevano nascerne altre? Come poteva mantenersi, continuare la vita?». Governo, Parlamento, partiti e associazioni provarono in tutti i modi a tamponare l’emorragia, varando provvedimenti volti ad irrobustire il settore primario (agricoltura, allevamento, selvicoltura). Si trattava innanzitutto di migliorare i metodi di sfruttamento, sia in pianura sia sui pascoli alti, e di favorire un uso più razionale del suolo (raggruppamento dei terreni). Ma poi occorreva battere strade nuove, e qui entrava in linea di conto la formazione in quota di piccoli insediamenti industriali, aziende che avrebbero permesso di trattenere in loco la manodopera, istituendo proficue sinergie intersettoriali (primario+secondario).

Esempio virtuoso era considerato il caso della Cima Norma di Dangio (Blenio), la fabbrica di cioccolato fondata al principio del secolo scorso e che rimase in attività fino al 1968. Ma proprio la fine di questo esperimento industriale indusse le autorità a rivedere approccio e strategia. Il risultato fu, nel 1974, il varo della Legge federale all’aiuto agli investimenti nelle regioni montane (Lim), uno strumento pensato in un’ottica regionalistica, ossia come intreccio di relazioni che non si arrestavano al perimetro dei singoli comparti.

Ciononostante la montagna non è riuscita a risollevarsi come ci si augurava. Il calo demografico e l’invecchiamento dei (pochi) abitanti rimasti hanno innescato una reazione a catena che ha investito e smagliato tutto il tessuto sociale, dalle scuole alle parrocchie, dai negozi alle poste, dalle osterie alle stazioni ferroviarie. Si è insomma via via disgregato quell’insieme di servizi di prossimità che per secoli ha mantenuto in vita le comunità montane, rafforzandone lo spirito di appartenenza, ciò che Patocchi chiamava la sfera «psicologica e spirituale». Ad accelerarne il declino ha poi provveduto il disimpegno del Dipartimento militare federale, riducendo al minimo caserme, arsenali, fortificazioni e aerodromi. L’impazzimento del clima ha inferto il colpo di grazia, vanificando gli sforzi profusi nell’ammodernamento degli impianti di risalita. Per un attimo è sembrato che le paure indotte dalla recente pandemia favorissero un ritorno alla montagna e un suo (parziale) ripopolamento: una rinascita trainata dal potere delle tecnologie telematiche. Di fatto non è stato così. In sede di bilancio si deve sommessamente concludere che il telelavoro non ha attecchito come molti auspicavano, anche per sgravare la rete stradale e ridurre l’occupazione degli uffici.

Il contesto urbano continua ad esercitare un’elevata forza magnetica, sottraendo alle valli la risorsa fondamentale: il fattore umano, la sola risorsa che permette ai progetti di camminare e di affermarsi. È un fenomeno, lo sappiamo, che affligge l’intera fascia alpina e buona parte degli Appennini. Ovunque autorità e circoli intellettuali riflettono come ridare ossigeno alla montagna, con quali iniziative e con quali soggetti. Impresa non facile, come testimoniano le ricerche che negli ultimi anni sta conducendo a Mendrisio il Laboratorio di storia delle Alpi, sotto la direzione di Luigi Lorenzetti e Roberto Leggero. L’ultimo volume, uscito per Donzelli, si occupa proprio dei servizi di prossimità come beni comuni nelle aree alpine e appenniniche sfibrate dall’emigrazione. Ma come sappiamo esiste anche una montagna ricca, ad esempio la mezzaluna turistica che dall’Engadina si estende fino all’Oberland bernese passando per Andermatt. Un cristallo di agi e benessere riservato all’élite mondiale, che tuttavia finisce per impedire agli autoctoni di accedere al mercato immobiliare. Ma un territorio trapuntato di seconde case e di letti freddi per buona parte dell’anno è destinato a trasformarsi in una corte recintata, svuotata di saperi, tradizioni, storia, un luogo anonimo e inautentico.