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Una questione di accenti

/ 13/05/2024
Paolo Di Stefano

Se un noto politico, uno dei leader attuali, durante un’intervista televisiva di dieci minuti, pronuncia quattro volte il verbo «dissuadere», significa che quel verbo gli piace particolarmente. Ma se quel verbo gli piace così tanto da continuare a utilizzarlo per indicare la necessità che l’Europa eserciti la sua forza dissuasiva verso Putin, allora dovrebbe anche conoscerne la pronuncia: e sapere che non si dice «dissuàdere» ma «dissuadère». Perché deriva da un verbo latino della seconda declinazione e non della terza. Ovvio che non tutti sono tenuti a conoscere le etimologie latine per pronunciare correttamente una parola, ma se a quella parola sei così affezionato da fartela affiorare sulle labbra a ogni piè sospinto in televisione, allora faresti bene a verificare prima l’accento (piano e non sdrucciolo), in modo da evitare ripetute figuracce in pubblico. E in più, se sei Carlo Calenda (4-), ex ministro e capo di un partito politico, se hai frequentato il prestigioso liceo classico Mamiani di Roma e se poi hai studiato Giurisprudenza, la precisione dell’accento per una parola a cui non riesci a rinunciare è il minimo sindacale. E sarebbe il minimo sindacale che qualcuno dei suoi collaboratori gli facesse bonariamente notare l’errore. Invece, facendo una piccola ricerca, la sorpresa è che quell’infinito Calenda l’ha ripetuto già decine di volte in tutta tranquillità e nulla riesce a dissuadèrlo dall’utilizzarlo come fosse il cacio sui maccheroni: «abbiamo bisogno di dissuàdere…», «lo stesso meccanismo serve a dissuàdere…». Insomma, non sarebbe più semplice affidarsi a qualche sinonimo, tipo «scoraggiare» o «distogliere», che non ponga problemi di accento?  Fosse il populista Salvini, glielo perdoneremmo (con il sospetto che sbagli l’accento ad arte per sembrare più vicino al popolo), ma si tratta dell’antipopulista Calenda, figlio di un economista-giornalista-scrittore e di una regista-scrittrice che in tutta evidenza non seguono le sue uscite televisive oppure non sentono l’esigenza di prenderlo per un orecchio e correggerlo una buona volta.  

Se Francesco De Gregori (6-) cantava che «non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore» alludendo al calcio di rigore, un accento sbagliato (ripetuto e ripetuto) potrebbe anche essere sufficiente a giudicare la qualità di un politico. E cosa pensare del ministro, anzi della ministra (1+), del Turismo che attribuisce la regia del Gattopardo, un capolavoro storico del cinema italiano, a un imprecisato Luchini? Luchini Viscontini, detto affettuosamente. Di recente un altro ministro (1++), quello della Cultura, ha collocato Times Square a Londra, confondendola con Piccadilly Circus o forse confondendo Londra con New York. Lo stesso ministro che l’anno scorso ha attribuito a Dante Alighieri l’atto fondativo della Destra italiana. E tempo fa una presidente del Senato è inciampata in un Giampaolo Pasolini (5+ per aver azzeccato il cognome). Lapsus? Per carità, chi non ha mai confuso un nome, sbagliato una data storica, bucato un congiuntivo, insomma chi non ha mai fatto una gaffe nella vita scagli la prima pietra. Purché non scagli la massiccia lapide commemorativa con cui il sindaco di Parma anni fa commemorò la cacciata, nel 1248, dell’imperatore Federico di Svezia: semplice refuso dell’incisore della lastra? Può darsi. Sempre meglio del deputato che a Montecitorio si alzò, si sistemò il microfono e rassicurò la platea: «Sarò breve e circonciso…». Vecchia battuta diventata in un attimo spaventosa realtà parlamentare nel boato divertito degli astanti. Da sprofondare. Un tempo certi esilaranti equivoci verbali provenivano soprattutto dal mondo del calcio. Quel giocatore che rimproverò il suo compagno: «Come hai fatto a sbagliare? Ti ho fatto un cross che era una pennellata, sembrava un quadro di Pirandello» (6 se si riferiva al figlio di Luigi, Fausto, che era un discreto pittore). O quell’altro che dichiarò raggiante: «Questo è un gol che dedico in particolare a tutti» (5½). O quell’allenatore che, al termine di una sconfitta, disse che non poter amputare niente ai suoi giocatori (6+ alla clemenza). O quell’altro che, dopo una partita deludente, incitò la squadra a rimboccarsi le mani. Oggi i calciatori preferiscono parlare poco e quando parlano sono quasi impeccabili. Piuttosto bisognerebbe «dissuàdere» certi personaggi politici dal parlare a vànvera. O a vanvèra?