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C’è sempre una primavera nascente

/ 29/04/2024
Lina Bertola

Camminare nel nostro bel Parco e visitare una biblioteca; sfogliare «libri» che si riposano sulle panchine, custoditi dentro tanti sguardi sempre in attesa di qualcosa: è un’esperienza bella, che condivido ogni giorno con il mio contapassi. Le solitudini illuminate dalla vernice rossa mi parlano. Solitudini diverse: quelle dei ragazzi sprofondati negli schermi dei loro sogni non assomigliano a quelle degli anziani, dei molti anziani che da una panchina all’altra mi vengono incontro. Sono tanti i racconti che camminano con me e si rincorrono nel mio incedere veloce: frammenti di vite possibili che vengono ad abitarmi, soste dell’anima, lente presenze, tempo prezioso che rende più dolce il tempo veloce della mia performance.

Catturata dagli occhi ospitali di un vecchio, occhi persi tra alberi e fiori nei riverberi del lago, ieri mi sono fermata. «Mi chiamo Antonio, ho quasi novant’anni» mi ha sussurrato con pudore e gratitudine. E dentro una malinconia dolce: «Sto guardando la primavera». Lui la primavera la sta guardando. Ha capito una cosa grande, che è possibile viverla davvero, anche da una panchina che sembra trattenerlo da un’altra parte.

Dentro queste sue parole, così leggere e discrete, ho immaginato il ritmo dei passi del suo ritorno a casa, e quello del suo cuore, in ascolto di questa primavera guardata in silenzio. Ho immaginato il desiderio della sua anima di poter intrecciare il nascere della vita, l’esplodere dei suoi colori, con i colori di quel suo tempo ormai breve che lo accompagna, giorno dopo giorno, sulla sua panchina. Antonio guarda la primavera per intrecciare l’aurora della vita con il suo tramontare, poi guarda anche me, e con un sorriso trasparente mi invita ad entrare nel suo sguardo, illuminato da un albero grandioso. Forse in quella sua imponente bellezza percepisce un possibile legame tra aurora e tramonto, tra il vivere e il morire. Mi piace pensare che quell’albero stia offrendo al suo esserci un sentimento di appartenenza a un orizzonte cosmico. Mi piace pensare che il vecchio Antonio riesca a percepire, nella natura guardata, una verità della vita spesso misconosciuta.

Di questa verità, dell’intreccio del vivere e del morire, si è occupato il botanico Francis Hallé che sulla vita degli alberi ha scritto pagine bellissime (Eloge de la plante, 1999). Grazie ai suoi studi ha concluso che una pianta è potenzialmente immortale, perché negli alberi ciò che vive avvolge ciò che sta morendo. L’albero non è un individuo che nasce e poi muore ma un organismo complesso in cui il processo vitale non termina mai. C’è sempre una primavera nascente ad accompagnare il lento morire che scandisce il suo tempo, dalle foglie alle radici. Ciò che muore viene avvolto da ciò che continua a vivere, per questo un albero è potenzialmente immortale.

Per capire davvero la complessità della vita, avverte Hallé, dobbiamo però abbandonare i profondi retaggi ancora presenti nella nostra cultura; dobbiamo liberarci di un pensiero che fin da Aristotele ha separato, e svalorizzato, il mondo vegetale rispetto quello animale. In una bella intervista di qualche hanno fa Hallé ne sottolineava le ricadute etiche: se un bambino maltratta un animale viene rimproverato, se spezza dei rami non gli si dice nulla.

Ecco allora il vantaggio etico del vecchio che guarda e può solo lasciarsi toccare da ciò che lo circonda. Può solo lasciarsi toccare dalla realtà, accogliere la sua presenza senza bisogno di possederla. Solo contemplazione e gratitudine.

Una specie di cortocircuito del pensiero mi ha riportata alla saggezza degli antichi, così ben esplorata dal filosofo Pierre Hadot (Esercizi spirituali e filosofia antica, 2002). Anche qui, tramonto e aurora si ricongiungono. Esercitarsi a morire, scrive Hadot, significa esercitarsi a morire alla propria individualità e imparare a vedere le cose nella loro universalità. Anche qui, il valore della vita viene ad avvolgere la morte.

Nell’inatteso incontro con Antonio, nei suoi occhi e nelle sue parole, la primavera del Parco è entrata in un orizzonte universale. La vecchiaia, quando non è offuscata dalla malattia, custodisce e riesce a esprimere il valore grande della vita. Per accogliere i doni preziosi dei vecchi basterebbe guardarli davvero in faccia. Lasciarsi toccare dalla bellezza della loro presenza, anche dalle rughe dei volti e dalla fragilità dei corpi. Per avvicinarsi a questa bellezza bisogna però prendere le distanze dal mito pervasivo di una gioventù à tout prix e dalle sue derive con il botulino fin dentro l’anima.