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Le parole e le immagini

/ 29/04/2024
Alessandro Zanoli

Non passa giorno senza che la nostra collezione di articoli sulle prodezze dell’intelligenza artificiale si arricchisca di qualche nuovo ritaglio e di qualche nuova riflessione. L’ultima sorpresa in ordine di tempo è la macchina fotografica che invece di scattare immagini produce poesie su quanto ha immortalato. La Poetry Cam (https://poetry.camera) è l’invenzione di due artisti che hanno voluto capovolgere il concetto attualmente in voga: invece di suggerire all’IA le parole con cui vogliamo che crei un’immagine, la si spinge al contrario a mettere in versi la nostra esperienza visiva. Al di là del risultato non particolarmente affascinante (i versi della poetry cam hanno l’elevatezza d’ispirazione, diciamo, di un liceale) quello che ci sembra più interessante notare e sottolineare è come l’IA si dimostri essenzialmente una macchina divoratrice di parole, un meccanismo che si alimenta di linguaggio.

A renderci coscienti di questa caratteristica è stato l’affascinante seppur complesso libretto di Pietro Montani, dal titolo Immagini sincretiche (Meltemi Editore, 2024). Per quanto ci riguarda, da tempo andiamo riflettendo sul fatto che in questi anni di forzata acculturazione digitale si sente la mancanza di un Roland Barthes, di un intellettuale cioè, capace di farci riflettere con esercizi di intelligenza illuminata sui meccanismi sociali in atto. Il libro di Montani viene in soccorso proprio aiutandoci a capire. Il filosofo romano, che concentra la sua ricerca sul campo delle nuove tecnologie e nel loro rapporto con l’estetica e con la comunicazione, ha un approccio metodico e graduale che ci conduce in ragionamenti complessi, multidisciplinari, davvero illuminanti.

I passaggi del suo ultimo saggio che più ci hanno fatto riflettere sono proprio quelli legati alla capacità della nuova tecnica di produrre immagini partendo da un set di informazioni verbali. Ci è tornata in mente, in particolare, una questione dibattuta durante una recente riunione del Foto Club di Lugano a cui abbiamo assistito. Vi si poneva una domanda leggermente inquietante: vista la grande capacità performativa dell’IA, in grado di produrre scatti che superano di gran lunga ogni possibilità dell’operatore umano, non stiamo entrando in un’era che metterà fortemente in discussione, tra le altre cose, anche la professione del fotografo, inteso come colui che sceglie, impagina e registra le immagini della nostra realtà?

Montani ci spiega innanzitutto come funziona la «macchina fotografica verbale» dell’IA. In pratica, nel procedimento digitale vengono associate in modo abbastanza semplice delle parole con delle immagini. Tali accostamenti vengono poi affinati aggiungendo ulteriori specificazioni, per ottenere sempre maggiore precisione nella raffigurazione. Ma c’è un problema: «Allo stato [attuale]», dice Montani, «le immagini algoritmiche non sono immagini del mondo, ma sono, in via di principio, immagini-di-immagini del mondo, provviste di una semantica puramente intensionale e intrasistemica. (…) Si tratta di immagini la cui prestazione rappresentativa si conforma senza eccezioni possibili a un regime autoreferenziale definite dall’etichetta verbale a cui sono saldate». (Si scusi la lunga citazione: serve anche a rendere l’idea di cosa ci stiamo perdendo in termini di sottigliezza di ragionamento nella frequentazione quotidiana del linguaggio medio: quello di Montani è un argomentare complesso e una utile sfida alle nostre pigrizie).

Insomma: per Montani l’immagine creata dall’IA non è vera rappresentazione in relazione con la realtà e, oltre a questo, non sarà mai una scoperta, una novità, perché si genera su una base di cose già dette, già viste, assemblate per probabilità matematica e senza che la macchina possieda (per ora) una qualsiasi nozione di senso su quanto viene raffigurato. Si tranquillizzino quindi i soci del sodalizio di cui sopra. L’IA non potrà mai soddisfare il bisogno che abbiamo di capire il mondo che ci circonda, semplicemente perché lei non lo capisce, ma lo assembla in modo meccanico. Per sapere chi siamo e come siamo, insomma, avremo sempre bisogno di un Cartier-Bresson, di un Gino Pedroli. Cioè di vera poesia: altro che Poetry Cam.