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Musica e tecnologia, tra uso e abuso

/ 29/04/2024
Benedicta Froelich

Era il lontano 1989 quando il duo dei Milli Vanilli, all’epoca astro nascente del pop internazionale, venne travolto da uno scandalo destinato a scuotere le fondamenta dell’intera industria musicale.

Ci volle infatti ben poco prima che il pubblico, una volta scoperto come le voci incise nei dischi della formazione non appartenessero affatto ai due membri del gruppo, insorgesse contro quella che venne universalmente ritenuta una frode conclamata – la rivelazione di come i componenti della band, Rob Pilatus e Fabrice Morvan, ricoprissero soltanto il ruolo di «figuranti» dall’accattivante presenza scenica, esibendosi (rigorosamente in playback) su tracce pre-registrate da vocalist professionisti. In realtà, nulla di troppo rivoluzionario, se si considera che il produttore dei Milli Vanilli, Frank Farian, aveva già scalato le chart con il gruppo disco dei Boney M., il cui frontman Bobby Farrell fungeva principalmente da ballerino mentre, dietro le quinte, Farian stesso gli prestava la voce nelle incisioni in studio.

Tuttavia, nonostante le gravi ripercussioni che lo scandalo dei Milli Vanilli ha avuto sull’intera scena pop internazionale, non si può negare come, negli anni a seguire, altri tipi di mistificazione siano divenuti ben più comuni. Se, infatti, Pilatus e Morvan erano inevitabilmente costretti a ricorrere al famigerato playback in ogni esibizione dal vivo (così da portare avanti la finzione inaugurata con i propri album), nel corso degli ultimi anni abbiamo assistito al successo spesso inspiegabile di innumerevoli «artisti» poi rivelatisi incapaci di gestire il palco in maniera convincente, e per i quali il playback è divenuta una scelta consapevole.

Chi, infatti, sarebbe disposto a scommettere un centesimo sulle abilità dal vivo di «star» quali Nicki Minaj e Cardi B? E sebbene, dalla fine degli anni 90 in poi, il playback sia stato via via più criticato e demonizzato, l’abitudine a creare idoli a comando – spesso promuovendo performer che possano divenire «personaggi culto», prima ancora che artisti convincenti – ha condotto a espedienti che nulla hanno da invidiare alla sfacciataggine dell’astuto Frank Farian; soprattutto, il generalizzato senso di oltraggio che trent’anni fa accolse le rivelazioni sui Milli Vanilli non sembra trovare corrispondenza odierna nei riguardi di un artificio molto più pervasivo, oggi purtroppo di uso comune.

È infatti dal 1997 che il software noto come Auto-Tune si è fatto strada nelle incisioni di ogni artista, compresi i più famosi e osannati; e sebbene questo processore audio si presenti come un semplice mezzo tecnico in grado di alterare le tonalità e correggere artificialmente eventuali stonature, è facile comprendere come esso possa definirsi l’equivalente digitale (e più evoluto) del playback. Lo dimostra la tendenza che, negli ultimi anni, ha visto tale strumento divenire una presenza obbligata in ogni studio di registrazione, dando origine a quella che per molti è divenuta una vera e propria addiction da Auto-Tune – soprattutto nell’ambito del pop più modaiolo, dove la popolarità di un cantante risulta a volte inversamente proporzionale alla sua gamma vocale. Tanto che, in passato, non sono mancate accese prese di posizione da parte dei (pochi) performer contrari a un mezzo il cui uso abituale può far apparire come valide anche quelle performance il cui livello di competenza lasci alquanto a desiderare; e il fatto che ciò valga non solo per le registrazioni in studio, ma anche per le esibizioni dal vivo, ne rende le implicazioni ancor più gravi.

In fondo, però, questo dibattito non fa che ricalcare l’annosa questione dell’abuso tecnologico e di come l’avvento dell’era digitale abbia costituito un’arma a doppio taglio – permettendoci da un lato di facilitare ogni attività artistica, e dall’altro di creare una dipendenza alla quale non siamo più in grado di sottrarci. In fondo, dove si collochi la linea di demarcazione tra uso e abuso possiamo deciderlo solo noi, esercitando una dote forse ormai démodé quale il buonsenso – e confidando, nonostante tutto, nella componente più genuina della vera e innata arte musicale, e nella sua capacità di prevalere su qualsiasi ausilio tecnologico.