azione.ch
 



La chiesa prebrutalista di Moser a Basilea

/ 22/04/2024
Oliver Scharpf

Il campanile all’origine del soprannome appioppato, all’epoca, dalla gente del quartiere alla prima chiesa in beton della Svizzera, lo becco subito appena sceso dal tram numero uno. Rettangolare e smilzo, non ci vuole certo un occhio da spügnölatt per vederlo svettare come un grattacielo o più simile, nello sguardo dei basilesi abituati al paesaggio portuale sul Reno, a un silo. «Seelensilo»: silo delle anime, così era stata appunto ribattezzata la Antoniuskirche. E in effetti, il campanile alto sessantadue metri della chiesa dedicata a Sant’Antonio di Padova, mi ricorda un po’ il silo di Bernoulli del 1923, già soggetto-reportage da queste parti tempo fa. E se non ricordo male, come in un gioco di specchi borgesiano, quel silo insolito, da un lato, ricordava proprio una chiesa.

Innestata alla perfezione nella linea di case parallela al filare di platani che percorro perdendomi nel verde delle loro prime foglioline, non è però il campanile, l’elemento più rimarchevole della chiesa prebrutalista di Moser (269 m) al trentacinque della Kannenfeldstrasse di Basilea. Di botto, è il portale che mi si para davanti sul marciapiede, il primo passo verso la coraggiosa bellezza di quest’opera del 1927 di Karl Moser (1860-1936). Architetto del Kunsthaus di Zurigo e della Badischer Bahnhof sempre qui a Basilea, la cui mano sottile e decisa, ammirabile nei suoi schizzi a carboncino dove non dimenticava gli alberi resi nuvolosi, è degna di nota. La strombatura richiama i portali gotici o romanici però il lieve digradarsi dell’archivolto in archi concentrici qui è estremizzato ed è rettangolare. Ingigantito al massimo, in modo da elevare lo sguardo al cielo, lo strombo è un magistrale crescendo o diminuendo misurabile in metri, attraverso sette movimenti scalari che creano forti ombre orizzontali. Il cemento a vista, accentua il poderoso atletismo geometrico-spirituale di questo portale prebrutalista che non conduce in chiesa ma in una corte-tunnel.

Il teorico dell’architettura Stanislaus von Moos conferma il mio stupore: «Il portale è probabilmente l’elemento più strano di tutta la chiesa». In fondo alle lesene discendenti che formano scanalature luminose nelle pareti, con ben visibili le tracce dei casseri per il beton gettato in opera, c’è lo spazio per sedersi. Uno zoccolo-panchina in una nicchia come luogo di sosta. E non è una cosa da poco questa possibile tregua dal mondo senza bisogno di entrare per forza in chiesa. Anche se dentro, una domenica mattina tardi di aprile, rimango di sale: la vastità di spazio di una cattedrale gotica però austera con la magnificenza del beton lasciato grezzo anche qui con le impronte dei casseri che decorano con la giusta dose di sprezzatura. E soprattutto, accarezzato dalla luce colorata delle vetrate a tutto campo. Otto colonne rettangolari si elevano slanciate per diciotto metri, strutturando lo spazio in tre navate classiche. La volta a botte tutta a cassettoni che tocca i ventidue metri di altezza lascia senza fiato. Ispirata da Notre-Dame du Raincy, opera seminale di Gustave Perret appena fuori Parigi, l’Antoniuskirche è presente, con il suo interno, nell’insostituibile Storia dell’architettura moderna (1950) di Bruno Zevi che definisce Moser «il decano del movimento moderno elvetico». Questo spazio straordinario per semplicità e audacia che perlustro naso all’insù si trova anche nella Kunstführer der Schweiz (1936) di Hans Jenny che si lascia andare dichiarando un «sorprendente effetto».

La celebrazione in corso della comunità cattolica filippina aggiunge una nota inattesa di esotismo. Una signora, attirata qui dall’architettura, si aggira come me estasiata. Incrociando il mio sguardo mi fa: «Klasse!». Conto i cassettoni e facendo due calcoli credo siano cento ma poco importa perché è la luce propagata intorno che conta. Il gotico protorazionalista incontra la psichedelia a passeggio. «Una luce di un’altra realtà» affermava Georg Schmidt, storico dell’arte e direttore del Kunstmuseum di Basilea tra il 1939 e il 1961 e uno dei primi, tra l’altro, a capire la grandezza di Alberto Giacometti. La luce delle vetrate di Hans Stocker e Otto Staiger, ora, nel coro in alto, trasborda sul beton. Ed è forse quest’unione di etereo e cemento armato, l’esile e fugace cattura più importante del mio viaggio di oggi.