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I gatti di Marrakech

/ 25/03/2024
Claudio Visentin

A Marrakech gli animali hanno sempre un compito ben definito. Cavalli e asini tirano vecchi carretti carichi di merci o di materiali edili; in piazza Jemaa el-Fnaa le scimmie vestite come bambole, legate a una catena, attirano i turisti verso i loro padroni.

Gli animali d’affezione invece scarseggiano, soprattutto i cani; diversi insegnamenti del Profeta (hadit) li descrivono come animali sporchi, impuri, con i quali non è opportuno dividere la propria casa. In effetti per le vie della città non ne vedo nessuno. Gli unici cani che ho conosciuto, Max e Frida, fanno la guardia a un lussuoso campo tendato nel deserto pietroso di Agafay e dunque sono anch’essi al lavoro (anche se Max è piuttosto bravo a intrattenere i turisti).

Ai gatti, assai più puliti, va decisamente meglio, forse perché anche il profeta Maometto aveva un gatto, Muezza. Un giorno, si racconta, lo trovò addormentato sulla tunica che avrebbe voluto indossare per la preghiera e preferì tagliare la manica piuttosto che svegliarlo. In virtù di questa antica predilezione i felini possono entrare anche nelle moschee e nelle sale di preghiera. Oltretutto a Marrakech l’Islam è stato influenzato dalla mite e pacifica fede dei sette santi sufi, sepolti in diversi quartieri della città. Anche per questo qui l’Islam, prima che una fede o peggio un’ideologia, è una visione del mondo e della società.

La vita quotidiana tuttavia è governata dal bisogno e, nonostante queste premesse, i gatti di Marrakech non se la passano sempre bene. Per esempio, a poca distanza dal mio caratteristico riad ‒ un’elegante dimora affacciata sul cortile interno ‒ un gatto staziona in permanenza vicino ai bidoni della spazzatura, in attesa di un magro pasto. Purtroppo per lui la produzione di rifiuti nella città rossa è minima; tutto viene vagliato, riparato, recuperato in vista di usi futuri. E quando infine striminziti sacchetti vengono gettati nei cassonetti, subito un povero s’avvicina per controllare il contenuto, frugando con dita sporche e impazienti. Ai gatti spetta solo la seconda scelta e anche per questo sono davvero magri.

A Marrakech la principale fonte di ricchezza è il turismo. Per questo la città vecchia (Medina) è diventata un unico gigantesco mercato, esteso ben oltre i limiti tradizionali del Suq. La quantità e varietà delle merci esposte è fantasmagorica e, con qualche eccezione, la qualità è sorprendentemente buona. Infatti anche le famiglie locali più agiate acquistano regolarmente in queste botteghe, compresa la dote per le figlie che vanno spose; del resto combinare e celebrare matrimoni è la vera industria nazionale del Marocco.

Non tutti però riescono a trarre profitto dalla presenza dei turisti. Servono infatti un capitale d’avvio, spirito manageriale, una certa capacità di relazione e una buona conoscenza delle lingue. Per questo molti stranieri, soprattutto italiani e francesi, ritagliano per sé la fetta più importante dei ricavi turistici, impiegando i locali nelle occupazioni più umili e meno retribuite.

Al di fuori del turismo la città vive della tradizionale economia di scambio di beni e servizi, la stessa di sempre: il piccolo negozio di quartiere, dove si trova tutto il necessario per la vita quotidiana, la macelleria halal, gli artigiani ecc. È un’economia stabile, protetta dai sussulti e dalle crisi dei mercati internazionali, ma inevitabilmente povera di risorse, di investimenti, di innovazione e dunque limitata alla sussistenza. Il capitale umano è poco sfruttato: i venditori trascorrono lunghe ore d’ozio guardando video sugli smartphone, in attesa che qualche cliente si avvicini alla loro tela del ragno. E in un angolo del negozio c’è sempre un apprendista o un socio d’affari ancora più sfaccendato, utile soprattutto per ingannare il tempo con la conversazione. Tecniche moderne di vendita sono del tutto sconosciute.

Nel frattempo, mentre metto in fila queste considerazioni tra me e me, il gatto ha trovato tra i rifiuti qualche frattaglia, con la quale trascinerà anche questa giornata. Ma ha l’aspetto dimesso e lo sguardo triste. Sembra volermi dire che i problemi di molti abitanti dei Paesi dove viaggiamo come turisti non sono le differenze culturali, né la religione, né le diverse visioni della donna e della famiglia. Il nostro problema ‒ continua il gatto (o così mi immagino) ‒ è solo e soltanto che siamo poveri.