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Verso una Svizzera bilingue?

/ 11/03/2024
Orazio Martinetti

C’è una riflessione di Gramsci che gli storici delle idee ma soprattutto i sociolinguisti amano particolarmente. Questa: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di problemi». Considerazione che Rosita Fibbi, Marco Marcacci e Nelly Valsangiacomo hanno messo in esergo al volume da loro curato, Italianità plurale edito da Dadò nella collana «Le sfide della Svizzera». Ma quali sono questi problemi? Precisa Gramsci: «La formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». La lingua dunque come riflesso di un vasto e articolato movimento sottostante, che dopo aver colonizzato il territorio economico e politico sale ai piani alti, investendo la sfera scolastica, la produzione culturale, il linguaggio colloquiale. Naturalmente i rapporti erano da intendersi non in senso meccanico ma dialettico, come intreccio di relazioni tra il basso e l’alto e viceversa. Ma che una relazione tra i due piani esistesse era evidente.

Recentemente è tornato sulla «quistione» Christophe Büchi sulle pagine della «NZZ» (14 febbraio 2024), con un articolo dal titolo allarmante: «La Svizzera plurilingue cade a pezzi». L’autore non è un neofita, conosce bene gli inceppamenti degli ingranaggi linguistici, avendo lavorato come corrispondente del giornale sia a Zurigo sia a Losanna. Ha pure avuto occasione di pubblicare un documentato saggio sulle fatiche del coabitare elvetico, uscito prima in tedesco (2000) e poi tradotto in francese, con aggiornamenti, quindici anni dopo (Röstigraben. Das Verhältnis zwischen deutscher und französischer Schweiz; Mariage de raison. Romands et Alémaniques). Ora è tornato ad occuparsene perché l’apparente quiete linguistica intervenuta negli ultimi anni cela una tendenza che egli giudica insidiosa: la progressiva espulsione – principalmente dalle aule scolastiche ma anche dall’amministrazione pubblica e dall’esercito – di una delle lingue nazionali a beneficio dell’inglese. Pericolo non nuovo, aggiunge, ma che ora viene accolto come una fatalità sia dai romandi che dagli svizzeri-tedeschi. In ambiti sempre più numerosi l’inglese funge ormai da seconda lingua nazionale, sostituendo il francese (nella Svizzera tedesca) e il tedesco (nella Svizzera francese). In pratica si va verso un bilinguismo «lingua locale-inglese», utile nello scambio comunicativo quotidiano, ma dannoso per la formazione delle giovani generazioni (impoverimento linguistico). La «Svizzera bilingue» è già una realtà negli agglomerati urbani, nel settore bancario-finanziario, negli uffici delle multinazionali, nelle università e nei due politecnici federali. I centri di ricerca comunicano e redigono i loro rapporti in inglese. In questo Gramsci, nei suoi Quaderni del carcere, aveva visto giusto: la fortuna/sfortuna di una lingua è largamente frutto di rapporti di forza, economici e politici. Il processo di globalizzazione ha mosso i suoi passi in contesti anglofoni, così come la parallela marcia trionfale della rivoluzione digitale. Sempre più famiglie sono dell’opinione che nell’iter formativo non sia utile e vantaggioso, come si è sempre fatto finora, anteporre all’inglese lo studio di una seconda lingua nazionale.

Certamente promuovere l’inglese a koiné nazionale ha i suoi vantaggi. A Zurigo, Berna o Basilea romandi e ticinesi non dovranno più misurarsi, sudando e penando, con le varianti dialettali locali, impresa che tradisce l’appartenenza a una minoranza interna, spesso poco considerata, oppure discriminata come quella rappresentata dagli immigrati; a loro volta i giovani svizzeri-tedeschi non dovranno più combattere con le trappole dell’ortografia francese… Meno macchinosi risulterebbero anche i lavori parlamentari nella Bundesbern… Ma poi che fine farebbe la Svizzera quadrilingue in questa resa incondizionata all’anglomania? Büchi mette in guardia: un’eventuale corsa verso l’omologazione incrementerebbe l’indifferenza reciproca e alla fine liquiderebbe come zavorra il patrimonio immateriale del Paese, le sue particolarità, le sue tradizioni, le sue ricchezze. Nota finale: per gli svizzeri-italiani e per i romanci la via è tracciata ed è quella di sempre, ovvero imparare le lingue degli altri. È destino, una questione di sopravvivenza.