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Yulija e la dura conquista della laurea

/ 04/03/2024
Melania Mazzucco

Alle tre e quaranta del mattino, il buio è un tappeto nero in una fitta umidità nebbiosa. All’estrema periferia della metropoli – edilizia selvaggia e abusiva – non esiste marciapiede e rade automobili la schivano sfrecciando a velocità suicida mentre lei si destreggia tra asfalto screpolato, buche in cui ristagna l’acqua piovana, cespugli di vegetazione infestante, sbrindellate recinzioni metalliche. Alle quattro i fari globulari del bus notturno squarciano l’oscurità, il parallelepipedo illuminato caracolla fino alla fermata. A bordo poche sagome confuse, sempre le stesse. Quasi tutte straniere arruolate da qualche impresa di pulizie. La testa sul finestrino, Yulija rosicchia una ventina di minuti di sonno, poi scende e aspetta l’autobus delle cinque. D’inverno il freddo punge le ossa, ma in Ucraina, a gennaio, potevano esserci venti gradi sottozero. L’ultimo bus lo prende alle cinque e quarantacinque. Se avesse un’automobile, impiegherebbe poco più di quaranta minuti ad attraversare la città. Ma non può permettersela.

Yulija è arrivata in Italia ventitré anni fa. La cugina le aveva proposto di sostituirla qualche mese per far le pulizie in casa di un farmacista. Ha imparato in quell’appartamento a lucidare parquet, fornelli, sanitari. Benché non si fosse mai occupata di lavori domestici, si è fatta subito una reputazione. Onesta, puntuale, riservata. È passata di famiglia in famiglia. All’inizio pensava che, una volta imparato l’italiano, avrebbe potuto chiedere l’equipollenza della laurea in ingegneria mineraria e trovare un lavoro migliore. Ma poi la burocrazia, la lingua, i costi l’hanno dissuasa. E doveva mandare soldi a casa: per far studiare la figlia. Così ha firmato con una cooperativa e da allora pulisce gli uffici di una multinazionale, in uno scintillante palazzo di vetro. Nonostante la sveglia di notte, e i ritmi della vita invertiti (rientra a casa nel pomeriggio, e va a dormire che è ancora giorno), a Yulija il suo lavoro piace. La rassicura il silenzio che la circonda, mentre spinge il carrello ricolmo di secchi, stracci e flaconi di disinfettante nei corridoi vuoti che solo da metà turno si animano di impiegati e dirigenti. Conosce i loro nomi dai cartellini sulle porte; ha imparato a distinguere le loro mansioni. Nella stanza in fondo lavora una donna che potrebbe essere lei. Ha la sua stessa età, la stessa laurea. Quando svuota il cestino della carta straccia, riconosce tabulati, disegni, calcoli familiari. Ma l’altra donna è nata qui, lei in una cittadina industriale sovietica, e le loro vite non si assomigliano. L’altra non si accorge di lei. Yulija è alta e massiccia, ha i capelli tinti di un biondo canarino – eppure è invisibile.

Una mattina, mentre aspetta il terzo autobus, l’abborda un ubriaco. Straniero pure lui. Farfuglia, pretende soldi, la abbranca. Yulija non porta mai contanti con sé, ma in borsa ha i documenti, e resiste. L’altro le affonda più volte il coltello nel braccio. L’ennesima aggressione nella zona degradata della stazione suscita scalpore. La notizia finisce in cronaca, una consigliera del Comune la visita in ospedale promettendo assistenza, la ditta le recapita un mazzo di fiori. La prognosi è di quaranta giorni. Ma il tendine è stato reciso e Yulija non recupera la funzionalità del braccio. Non può più spingere il carrello né sollevare il secchio. L’aggressore – un fantasma pure lui – è riuscito a dileguarsi e non vi sarà risarcimento. Ma le riconoscono un’invalidità del 75%.

A cinquant’anni, Yulija chiede all’università il riconoscimento del titolo di studio e supera gli esami necessari. Non si chiede se un’ingegnera ucraina in età quasi da pensione vincerà un concorso o sarà assunta. Ma il giorno della laurea, con una corona d’alloro sui capelli, festeggia con le ex colleghe della ditta, fiere di lei, e la figlia venuta da Dresda. Ha progetti, non rimpianti. Il suo minerale preferito è sempre stato il titanio. Leggero, duro, duttile, resiste alla corrosione. Lo usano per fabbricare orologi e protesi per riparare corpi umani. Anche nella terra più desolata può nascondersi un tesoro. La disgrazia dovrà diventare la sua miniera.