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Il voyerurismo televisivo

/ 04/03/2024
Benedicta Froelich

Per quanto possa apparire come storia recente, il dibattito sociologico sul voyeurismo televisivo non rappresenta certo una novità: d’altra parte, se già ai tempi di una trasmissione chiacchierata quale Il Grande Fratello ci si interrogava sul significato recondito delle tendenze «da guardoni» del pubblico, la morbosa curiosità verso i fatti altrui (meglio se tragici, drammatici o anche disgustosi) è oggi divenuto il medesimo principio su cui si basa l’immensa industria dei social network.

Tuttavia, quando si tratta dei recenti programmi di maggiore successo della televisione di lingua inglese – tutti importati con notevoli riscontri alle nostre latitudini – non si può che rimanere disorientati davanti alla natura stessa dei concept, intrisa di fattori quantomeno inquietanti. Soprattutto nel caso della TV americana, ci troviamo infatti ad assistere a incursioni nella più pura patologia psichiatrica: basti pensare a serie come Hoarders e Sepolti in casa – in cui accumulatori seriali sull’orlo dello sfratto si ritrovano costretti a ripulire le proprie case – o a Vite al limite, finestra sulle storie disperate di persone esageratamente obese e dipendenti dal cibo che, ormai in pericolo di morte, si rivolgono al Dr. Nowzaradan, esperto in cure bariatriche.

E ce n’è per tutti i gusti, con trasmissioni che toccano ogni gamma dello spettro patologico: da Malati di pulito, i cui protagonisti trascorrono le giornate pulendo in modo ripetitivo e delirante ogni angolo di casa, a The Nightmare Neighbour Next Door, che vede i famigerati vicini di casa dipinti come il nemico pubblico nr. 1, soddisfacendo un classico luogo comune dell’immaginario collettivo.

Naturalmente, di primo acchito, simili seguitissimi programmi potrebbero suscitare la stessa domanda che sorge spontanea dopo ogni incursione tra i «vlogs» più popolari di YouTube – ovvero, per quale motivo l’atto di spiare in casa d’altri dovrebbe essere considerato come intrattenimento? Tuttavia, in questo caso un fattore ben più inquietante entra a far parte dell’equazione: il desiderio morboso del pubblico di assistere da vicino alle manifestazioni più avvilenti del disagio psichico di individui e intere famiglie, osservandone con malcelata soddisfazione il calvario.

A tal proposito, in molti hanno stigmatizzato il cinismo della trasmissione Hoarders in confronto alla sua controparte britannica (Britain’s Biggest Hoarders), la cui presentatrice mostra un approccio più delicato e comprensivo nei riguardi di personaggi spesso esasperanti, senza mai lasciarsi andare a facili giudizi o moralismi. Ciononostante, è chiaro che, al di là delle (forse) nobili intenzioni di qualche produttore, convinto dell’utilità di mostrare al mondo come sia possibile risollevarsi da situazioni apparentemente disperate, l’elemento più importante, in termini di audience televisiva, resta quello della più sfacciata morbosità.

Lo dimostra l’enfasi sulle storie personali dei protagonisti, evidente nel già citato Hoarders come in tutti gli altri show: infatti, se da un lato è legittimo affrontare il problema del comportamento accumulatorio tramite una terapia che vada a ricercarne la causa nel passato, l’insistenza dei produttori a voler ricercare la «tragedia a tutti i costi» risulta sospetta, specialmente quando il fattore spettacolo viene ulteriormente enfatizzato dalla scelta di costringere il malcapitato di turno a svuotare la propria casa nello spazio di soli tre giorni – il che, naturalmente, lo conduce spesso sull’orlo del collasso nervoso, facendo affiorare conflitti famigliari e tensioni di ogni tipo a beneficio degli spettatori avidi di psicodrammi.

Stabilito quindi che la solidarietà ha ben poco a che fare con il successo di questi programmi, resta solo, a giustificarne l’esistenza, la medesima fascinazione malata che portava il pubblico ad affollare i «freak show» di epoca vittoriana; e se ciò sembra suggerire come, nonostante le speranze, la nostra società non sia poi troppo diversa da allora, ecco che forse occorre cominciare a porsi alcune domande su come i media odierni dovrebbero dipingere i membri più fragili della comunità: se come fenomeni da baraccone, o piuttosto come individui da proteggere.