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Antonio Galli e la crisi del Ticino

/ 12/02/2024
Orazio Martinetti

Un Cantone che superava appena i 150mila abitanti, stretto e boccheggiante come un luccio morente tra le barriere doganali italiane e il massiccio alpino, dedito perlopiù ad attività agricole; rari e poco produttivi gli stabilimenti industriali e un turismo limitato alle località lacustri. Questo il quadro che il direttore di «Gazzetta Ticinese», Antonio Galli, presentava ai suoi lettori cent’anni or sono, raccogliendo in un volumetto, intitolato La crisi ticinese, una serie di articoli apparsi nell’inverno 1923-24 sul suo giornale. Un referto amaro, che evidenziava secolari tare storiche ma anche una crescente indifferenza da parte della Berna federale: «Alla periferia della Confederazione, e in ispecie al Canton Ticino, non arriva più sangue a sufficienza… C’è odor di chiuso, nel Ticino: un odor di chiuso che minaccia di recare grave danno… Sia oltre Gottardo che in Lombardia si sta meglio che nel Ticino. […] Nel Cantone Ticino si prova l’umiliazione, ormai, della sonnolenza e dello sbadiglio. […] Noi siamo come certi vecchi di campagna che, appoggiati ad un muro, ascoltano il sole».

Le cause del disagio andavano ricercate, proseguiva Galli, nello stato di reclusione di fatto in cui il Paese era caduto fin dalla metà dell’Ottocento, vittima di una politica centralizzatrice condotta dalle autorità federali senza tener conto dei bisogni delle minoranze, etniche e regionali. Il provvedimento che più bruciava erano le soprattasse che le Ferrovie federali applicavano sulle tratte di montagna. Una maggiorazione delle tariffe che fatalmente ricadeva sul prezzo dei prodotti ticinesi inviati sui mercati d’oltralpe: «La muraglia alpina è stata vinta, col traforo del Gottardo: ora deve cadere l’odiosa e per noi umiliante muraglia delle soprattasse ferroviarie». La ferrovia era stata accolta come una benedizione dalla popolazione ticinese. Finalmente prendeva forma un collegamento stabile tra il Nord e il Sud del Paese, una aorta vitale per gli scambi commerciali, fondamentale per consolidare lo spirito patriottico, l’attaccamento del Ticino (il figlio) al resto della Confederazione (la madre). E tuttavia l’impresa, retta da mani private fino al 1909 (la Compagnia del Gottardo con sede a Lucerna), non soddisfece mai completamente le attese del Ticino. Anzi, fin dall’avvio dell’esercizio suscitò malumori per le scelte che adottava, sia nell’allestimento del tariffario, sia nell’assunzione del personale (i dirigenti erano sempre svizzero-tedeschi). Le proteste furono frequenti e puntuali fin dal principio, ma solo dopo la Prima guerra mondiale trovarono una sistemazione organica in un memoriale redatto dal Consiglio di Stato e inviato nel marzo del 1924 al Consiglio federale. In queste prime «rivendicazioni», il Governo ticinese non esigeva soltanto la soppressione delle soprattasse, ma anche una maggiore considerazione delle sue condizioni economiche e cultural-linguistiche, con un occhio di riguardo per la sua italianità.

A queste rivendicazioni ufficiali Galli aggiungeva una sua personale indignazione per come Berna e talune testate giornalistiche guardavano a questa piccola appendice meridionale, come se fosse una colonia popolata di contadini neghittosi e di risparmiatori attratti unicamente dalla rendita: «La colpa va cercata non in mala volontà, non nella imperizia degli abitanti, ma nelle condizioni generali di isolamento nelle quali viene lasciato il Cantone… non è vero che il capitale ticinese sia pigro e amante solo del piccolo saggio d’interesse che di solito è dato dalle cartelle di rendita; non è vero che il capitale ticinese rifugga dal collocamento in imprese industriali». Questo osservava il liberale Antonio Galli cent’anni fa, argomenti che poi riprese più tardi, appoggiandosi alla lezione fransciniana, nei tre volumi dati alle stampe nel 1937 sotto il titolo Notizie sul Cantone Ticino. Liberale-radicale, Galli fu consigliere di Stato e consigliere nazionale, esponente di spicco degli scissionisti antifascisti che nel 1934 dettero vita al Partito liberale radicale democratico. Morì nel 1942. Il figlio Brenno fu a sua volta fautore della riunificazione del partito all’indomani della guerra e tra i protagonisti della nascita nel 1947 di un Esecutivo d’indirizzo liberal-socialista (Intesa di sinistra) che sarebbe rimasto in sella per i successivi vent’anni.