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L’apparente ossessione per il true crime

/ 05/02/2024
Benedicta Froelich

Forse la gradualità con cui il fenomeno ha preso piede ci ha a lungo impedito di farvi troppo caso, ma è certo che, ultimamente, molti commentatori e sociologi si sono espressi su uno dei trend più intriganti degli ultimi tempi – ovvero l’apparente ossessione per il cosiddetto true crime (termine utilizzato per distinguere il genere dalla più nota crime fiction, la quale per sua stessa definizione non ha alcun legame obbligato con la realtà).

Di fatto negli ultimi anni ogni branca della cultura popolare è stata letteralmente invasa dai fatti di cronaca nera: tanto per fare un esempio, la celebre piattaforma Netflix ha visto tra i maggiori successi delle ultime stagioni più d’una miniserie incentrata sulle prodezze di celebri serial killer americani – su tutte, la seguitissima Dahmer, immersione nell’anima dell’enigmatico «cannibale» la cui carriera criminosa costituisce ancor oggi un mistero a cavallo tra malattia mentale e assoluta perversione.

Non solo, se ognuno dei recenti exploit cinematografici ispirati alle vite di celebri assassini (si vedano gli immancabili Ted Bundy e Richard Ramirez) ha riscosso grande successo e suscitato dibattiti, oggigiorno l’interesse quasi morboso verso i fatti di sangue si può riscontrare soprattutto sui social network, dove i content creators dediti al true crime si sono moltiplicati a vista d’occhio, raggiungendo un seguito stellare su YouTube e TikTok.

E benché l’analisi e il racconto dei vari crimini si basino su nozioni di dominio pubblico, all’interno di questo particolare ambito ogni creator s’impegna a sviluppare un inconfondibile stile personale, così da attrarre quanti più fan possibile; un po’ come avviene con la buona, vecchia televisione, con i suoi programmi in prima serata (dall’inossidabile Chi l’ha visto al più recente Quarto Grado) e la proliferazione di documentari sensazionalistici importati dall’America.

Ma quale potrebbe essere il significato recondito di questa passione per il crimine e cosa, infine, può rivelare della nostra società? Forse più di quanto noi stessi pensiamo.

Innanzitutto l’eterna fascinazione per il male compiuto da altri – per ciò che di oscuro si cela nelle pieghe più nascoste dell’esistenza – non costituisce esclusivo appannaggio del tempo presente, così come non è certo un caso che la censura della cronaca nera sia da sempre prerogativa di ogni totalitarismo: tutto quanto è imponderabile e inspiegabile tende infatti a destabilizzarci e renderci sospettosi e diffidenti nei confronti dei nostri simili, privandoci così di ogni fiducia ontologica verso il sistema.

Eppure la psicoanalisi ci insegna che la lettura della cronaca nera può anche avere una funzione catartica, rivelandosi perfino utile per l’equilibrio mentale del cittadino medio: come in una sorta di «sfogo per procura», l’altrui aggressività e mancanza di freni inibitori fungono da gratificazione indiretta, dando voce ai nostri istinti repressi in modo (fortunatamente) innocuo.

Inoltre l’atto di indugiare nei particolari delle nefandezze compiute da altri costituisce anche un’occasione per sentirsi rinfrancati nello spirito in modo vagamente parassitario – un incentivo ad autoconvincersi del fatto che no, noi non saremmo mai in grado di abbassarci a simili orrori; il che, implicitamente, ci permette di gloriarci della nostra natura virtuosa.

Allo stesso tempo però esiste anche un’altra faccia della medaglia: secondo alcuni, occuparsi con tanta abnegazione di eventi dai toni non certo edificanti non può in alcun modo giovare al morale o allo spirito – e se si desidera conservare un minimo di gioia di vivere bisognerebbe quindi dedicare il proprio tempo libero a ben altri tipi d’intrattenimento.

Eppure, forse c’è di più, dietro tutto ciò: se, come ebbe a dire John Milton, «lontano dal giusto si può trovare il significato del male», la continua enfasi sulle umane miserie potrebbe infine non essere altro che un banale tentativo di esplorare e sperimentare il male, al fine di esorcizzarlo e allontanarlo – facendoci noi stessi carico di quella protezione e salvaguardia che, teoricamente, dovrebbe essere la società civile a garantirci, e in cui forse non crediamo più come un tempo.