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Riordinare i ricordi di famiglia

/ 05/02/2024
Bruno Gambarotta

Torino, il Polo del Novecento è la casa di una ventina di istituti storici e di fondazioni culturali, ospitati in due edifici contrapposti, opera del grande Filippo Juvarra. Progettano una «installazione sonora artistica» sul tema Natale 1943 e m’invitano a prendervi parte. Suppongo dopo aver controllato il mio anno di nascita. Accetto con entusiasmo la proposta, anche se ignoro cosa sia «un’installazione sonora». Ora si tratta di far venire a galla i ricordi e riordinarli. Una parola. A saperlo avrei preso appunti. Nato ad Asti il 26 maggio 1937, in quel Natale ’43 avevo sei anni e dunque frequentavo la prima alla scuola elementare Ammiraglio Umberto Cagni. La maestra Bussone Culasso era disperata perché eravamo arrivati a scuola parlando piemontese. Uno solo dei miei compagni parlava italiano, era figlio dello storico Aldo Vergano e a casa sua guai a usare il dialetto. Nessuno mi aveva detto che ero nato nel ghetto ebraico, forse perché di ebrei non ce n’erano più. L’ho scoperto molti anni dopo leggendo il romanzo I giorni del mondo di Guido Artom.

Mio padre Mansueto, classe 1911, sergente maggiore di artiglieria da montagna, era tornato a casa grazie allo sfaldamento dell’esercito l’8 settembre del ’43. In quel momento il suo reggimento era stanziato ad Alpignano, un paese della bassa val di Susa, una distanza percorsa parte a piedi, parte su treni che i macchinisti fermavano in aperta campagna per far scendere i soldati in fuga prima di arrivare nelle stazioni sorvegliate dai tedeschi. Prima del suo ritorno avevo vissuto come un piccolo Buddha, parcheggiato nel negozio da pettinatrice di mia madre, ascoltando i discorsi delle clienti che parlavano liberamente, convinte che io fossi troppo piccolo per capire qualcosa di quelle meravigliose storie di sotterfugi e di inganni per sfuggire al controllo dei padri e dei mariti, di doppi e tripli amori portanti avanti contemporaneamente. In prossimità delle Feste mia madre lavorava fino a tardi, mio padre cucinava e io l’aiutavo. Tagliava le patate, le carote, le cipolle con una precisione millimetrica. Nella vita civile era un tipografo compositore a mano, una fettina diversa dalle altre per lui era un refuso da correggere. Non abbiamo mai patito la fame, mia madre dalle clienti che arrivavano dalla campagna si faceva pagare in natura, erano tutti contenti. Le contadine, per farsi fare la permanente, viaggiavano in littorina. Come mia zia Lilia, la sorella di mia madre, che per farci una sorpresa, era andata in campagna a comprare una gallina da tenere in casa per farle fare le uova. Gli animali vivi, per viaggiare in treno, dovevano pagare il biglietto. Lei aveva chiuso la gallina nella sporta coprendola con una tovaglia. Passa il controllore e la gallina, muta fino a quel momento, si mette a fare coccodè. Cosa c’è in quella borsa? Niente, c’è solo una gallina morta. Me la faccia vedere. Mia zia, per non pagare un altro biglietto e la multa, introduce la mano dentro la sporta e svelta svelta strozza l’animale prima di mostrarne il cadavere al ferroviere. L’abbiamo mangiata al pranzo di Natale, bollita e messa in gelatina con il suo brodo. Hanno aspettato che l’avessi gustata prima di raccontarmi le modalità del suo trapasso.

E i regali? Una scatola di pastelli colorati e un album di fogli da disegno. E un oggetto meraviglioso, una piccola trebbiatrice funzionante! Ettore, il fratello di mio padre, anche lui tipografo, era un fantastico modellista. Hanno iniziato a giocarci loro due, con le mie mani inesperte l’avrei subito fatta a pezzi. Mio padre, per non dover ritornare in prima linea con l’esercito di Salò, aveva trovato il modo di farsi arruolare dall’Unione Nazionale Protezione Antiaerea, UNPA. Il coprifuoco iniziava alle 18 e lui, con i suoi colleghi andava in giro per le strade deserte a caccia di temerari. Controllava inoltre che dalle finestre delle case non trapelassero le luci, perché, com’è noto, i piloti dei bombardieri alleati avevano l’ordine di sganciare le loro bombe sui nostri tinelli illuminati. I vetri delle finestre erano stati tappezzati da grandi fogli di carta blu, quella che usavano i negozi di alimentari per incartare lo zucchero che si vendeva a peso. Nella mia famiglia c’era anche una zia ventenne, organizzava delle festicciole con i coetanei che sfidavano il coprifuoco arrivando attraverso i corridoi sotterranei costruiti un secolo prima per collegare tutte le case del ghetto. Prima del 1848 agli ebrei era vietato uscire di casa dopo il tramonto.

Per me la guerra finisce quando un soldato americano, in piedi fuori dalla torretta di un carro armato che sfila lungo il corso Alfieri, mi lancia un pacchetto di gomme da masticare.