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Flaiano grande scrittore, non solo giornalista versatile

/ 22/01/2024
Aldo Grasso

Non c’è giornalista che non abbia usato una battuta di Ennio Flaiano. Ne riporto alcune: «[Gli italiani] Questo popolo di santi, di poeti, di navigatori, di nipoti e di cognati…», «Anime semplici abitano talora corpi complessi», «Afflitto da un complesso di parità. Non si sente inferiore a nessuno», «I giovani hanno quasi tutti il coraggio delle opinioni altrui», «Il peggio che può capitare a un genio è di essere compreso», «La situazione politica in Italia è grave ma non è seria».

Parliamo di Flaiano, il sempre citato Ennio Flaiano (Pescara, 5 marzo 1910 – Roma, 20 novembre 1972). Sopraffatti dalla «flaianite» (Giovanni Russo), quell’abitudine un po’ infantile di attribuire battute ed epigrammi a Flaiano nel corso di un qualsiasi talk show e di trasformarlo in una sorta di grande battutista televisivo, fatichiamo a scoprire il grande scrittore dissimulato dietro il giornalista versatile, lo sceneggiatore di Fellini, l’aforista aperto a interessi di ogni genere. E in effetti è così: dici Flaiano e pensi al racconto ingegnoso e fulminante, all’apologo amaro e grottesco, al taccuino da viaggio (suo un memorabile reportage televisivo sul Canada), al dialogo corrosivo e sarcastico, all’aforisma che non si lascia più dimenticare. «Flaiano le flâneur» («Le Monde») è uno straordinario scrittore che pare poco attratto dall’architettura chiusa del romanzo, timoroso forse di restarne prigioniero, e più propenso invece a «passeggiare» fra generi minori, fra le manie del mondo culturale, per disseminarvi a piene mani tutto il suo disincanto, la sua lucidità, la sua malinconica e brillante intelligenza.

Nel ritratto che di lui ci lascia il critico Giorgio Zampa è descritta con vividezza la fatica che si compie ad assoggettarlo all’ufficialità dello scrittore: «Un liberale diffidente di tutto e di tutti, cominciando da sé, immune da cinismo e da ubriacature ideologiche e da interessi di partito. Più che al narratore si dette rilievo al diarista, al columnist, al cronista di una precisione e vivacità da decalcomania, all’inventore di soprannomi storici, adottati in tutto il Paese; pure riconoscendo qualità a Tempo di uccidere, unico romanzo scritto e pubblicato nel 1947, si convenne che Flaiano aveva dato piena misura di sé nelle pagine a ruota libera, fitte di osservazioni ambientali, di riflessioni su tutto e tutti, di accensioni fantastiche sprigionate dall’attrito con la cronaca, con i fatti del giorno».

A ventitré anni, Flaiano cominciò la sua attività di giornalista. Scrisse su «Oggi», «Documento», «Mondo», «Il Corriere della sera», «L’Espresso», «Il Risorgimento liberale», «Omnibus». E non solo, continuava a scrivere anche in altre forme, in altre posture. È stato uno degli sceneggiatori più richiesti: ha scritto per Fellini ma anche per Rossellini, Lattuada, Pietrangeli, Risi, Antonioni, Monicelli, Zampa, Ferreri.

Più passa il tempo, più si rivede La dolce vita e più la distanza tra Fellini e Flaiano prende corpo. Non tanto per lo sgradevole incidente che avrebbe rotto il sodalizio (il famoso viaggio in aereo a Los Angeles che vede Fellini seduto in prima classe con Angelo Rizzoli e Flaiano in economica), quanto perché tra i due c’era una profonda distanza culturale che, tra le pieghe, il film lascia trasparire.

Ne La solitudine del satiro, Flaiano scrive: «Sto lavorando, con Fellini e Tullio Pinelli, a rispolverare una nostra vecchia idea per un film, quella del giovane provinciale che viene a Roma a fare il giornalista… Il film avrà per titolo La dolce vita… Uno dei nostri luoghi dovrà essere forzatamente via Veneto… Il giovane provinciale è già ben piazzato, guadagna, e uno di quei giornalisti prodotti dalla civiltà della sensazione, cioè racconta gli scandali, le fesserie che fanno gli altri. Si è lasciato adottare da quella stessa società che lui disprezza». Ma quando Flaiano vede in proiezione alcune scene del film commenta: «Il gongorismo, l’amplificazione di Fellini nel ritrarre quel mondo di via Veneto fa pensare al museo delle cere, le immagini dei quaresimalisti quando descrivono la carne che si corrompe e imputridisce… Fellini quaresimalista? É un’ipotesi tentatrice».

«Flaiano – scrive Arbasino in Ritratti italiani (Adelphi) – si sentiva un classico minore – e questo lo ha scritto e ripetuto parecchio – e, in quanto classico, duraturo, oltre a provare un innato orrore per la volgarità».

Per fortuna ci restano i suoi libri, un’eredità di acume e intelligenza, ironia e malinconia più viva che mai.