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Un augurio particolare
Lina Bertola
Poco prima di Natale ho fatto visita a un’anziana signora, cara amica di mia madre, che mi ha congedata con un augurio molto particolare. «Abbi cura di te!». Erano le stesse identiche parole che sempre mi rivolgeva la mamma, con voce flebile quanto appassionata, dal fondo della stanza della sua vecchiaia. Questa cura di sé, affettuosamente evocata, va ben al di là del suo significato terapeutico, si rivolge più in profondità al tessuto della nostra esistenza, al nostro camminare nella vita, giorno dopo giorno.
Forse non è un caso che questo auspicio mi veniva e mi viene ancora oggi rivolto da persone molto anziane, ormai estranee alle formule beneauguranti che si moltiplicano attorno a Natale e all’inizio di ogni anno. Formule impersonali, rivolte ai giorni a venire, nella speranza che le cose desiderate, dalla salute all’amore, dal successo professionale ai beni materiali, possano venirci incontro dentro paesaggi nuovi della vita. Che capiti qualcosa di buono, insomma, affidiamoci alla fortuna!
Le parole della anziana signora non si riferivano invece all’attesa di qualche buona occasione che ci possa felicemente sorprendere ma erano rivolte direttamente al mio cuore, come se sapessero che alla fine toccherà a me dar forma ai giorni che verranno.
Rispetto a tanti auspici di felice anno nuovo, corredati da immagini di brindisi, maialini portafortuna, coccinelle e quadrifogli, in quell’«abbi cura di te» risuonano parole davvero inattuali. Parole che portano con sé il valore grande di ciò che, proprio perché inattuale, resiste al mantra di tanti luoghi comuni, di pensierini e rituali à la page, spesso allegra prigione di un’omologazione collettiva.
È davvero inattuale, démodé, questo auspicio che bussa alla soglia del nostro mondo interiore per invitarci ad averne cura, a prestare attenzione, giorno dopo giorno, al nostro modo di vivere e di convivere, perché la sorgente di una vita buona e felice è in noi, fortuna permettendo, ma anche no.
In queste parole inattuali è custodito un messaggio indelebile della saggezza antica.
La cura come sorgente di una vita buona è infatti un tema centrale fin dalle radici della nostra civiltà, fin dall’esperienza socratica, contenuta e sviluppata in tanti dialoghi platonici.
Basti pensare all’Apologia, in cui Socrate si difende dai suoi accusatori dicendo che lui non ha fatto altro che insegnare a chi lo ascoltava ad avere cura di sé, e cioè ad aver cura della propria anima affinché potesse acquisire la forma migliore possibile. Non bisogna preoccuparsi di ciò che si può avere dalla vita, sosteneva, ma di ciò che si può essere.
Seppur con sfumature talvolta molto diverse, questo monito ha alimentato secoli di saggezza. I pensieri raccolti nel manuale dello stoico Epitteto, ed è solo un esempio tra molti possibili, sono una vera e propria bussola esistenziale per orientare e per dar forma al proprio vivere e convivere. Prendersi cura della vita significa anche saper accettare ciò che non possiamo modificare, perché comunque non sono le cose, ma siamo sempre noi i responsabili, anche dei nostri turbamenti.
Questo richiamarci al centro della nostra vita rimane sullo sfondo nel brindare al nuovo anno. Trascinati sulla giostra di un mondo triste che non vuole sapere di esserlo e si inventa tante piccole felicità, facciamo fatica a metterci all’ascolto di noi stessi, delle sfumature di una vita sempre vulnerabile, sempre incompiuta, sempre in attesa di uno sguardo attento. E così guardiamo fuori, in attesa che ci capiti qualcosa di buono.
In mezzo a tanti sorrisi spettacolo qualcosa della nostra umanità rimane silenzioso. Ma è proprio questo suo silenzio a chiedere di aver cura di noi stessi e dagli altri.
Perché la cura della propria vita è anche cura dei legami, del nostro stare insieme. Perché l’attenzione alla vita è un modo di esserci, un modo di abitare la vita insieme agli altri. È una postura di gentile accoglienza, di tenera condivisione.
C’era tanta tenerezza nelle parole donatemi dalla vecchia signora. Scrive lo psichiatra Eugenio Borgna: «Non c’è cura dell’anima e del corpo se non sia accompagnata dalla tenerezza che, oggi ancor più che nel passato, è necessaria a farci incontrare gli uni con gli altri, nell’attenzione e nell’ascolto, nel silenzio e nella solidarietà». E aggiunge: «non c’è tenerezza che non nasca dall’interiorità, dalla soggettività e dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un comune destino di dignità e di libertà».