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Rischiare la pelle con la penna in mano

/ 25/12/2023
Carlo Silini

Nell’Ottocento gli eroi della libera informazione eravamo «noi» idealisti del neonato Ticino, che lavorando a braccetto coi perseguitati dell’altra parte della ramina e sostenendo la loro causa di liberazione dall’oppressione straniera preparavamo il terreno mentale dei futuri italiani ai rivolgimenti da cui sarebbe nato il loro Paese. Come? Attraverso le stamperie: le ormai scomparse tipografie sulle sponde del Ceresio che il collega Pietro Berra (intervistato alle pagine 34 e 35) paragona a WikiLeaks, il sito che negli scorsi anni ha sbugiardato le torbide derive di alcuni Paesi super democratici (oltre che di regimi liberticidi).

WikiLeaks a Capolago, quindi, dove dai torchi della Tipografia Elvetica uscivano libelli, pamphlet e manifesti firmati dalle menti più brillanti della confinante Penisola. E da dove a notte fonda partivano i contrabbandieri di libri, varcavano la frontiera e diffondevano il verbo della rivolta contro l’impero austriaco che occupava Lombardia e Veneto. Rischiando la vita e in alcuni casi perdendola, come successe a Luigi Dottesio, il carbonaro catturato a pochi metri dal confine, incarcerato a Como e impiccato in piazza, a Venezia, nel 1851.

Quanti giornalisti svizzeri o italiani, oggi, sarebbero disposti a rischiare la pelle per un simile ideale? Male che vada, da noi, i cronisti rischiano una denuncia per diffamazione, ma non certo per aver scritto contro una dittatura. Il che non significa che la Svizzera sia il paradiso della libera espressione. Siamo al 12esimo posto nella classifica internazionale sulla libertà di stampa. Pochi sanno, infatti, che gli articolisti elvetici rischiano fino a tre anni di carcere se pubblicano servizi basati su dati bancari trapelati o rubati. Come dire che il fine, la ricerca della verità, non giustifica i mezzi, le gole profonde che passano ai media documenti scottanti sottobanco (il metodo WikiLeaks). Da lì a farci passare per martiri dell’informazione, però, ce ne corre.

Da noi la libertà di penna, di microfono o di videocamera è un diritto che comporta scarsi rischi (a meno di essere inviati di guerra, continuando la tradizione di grandi reporter come Arnaldo Cipolla, di cui si parla a pag. 33). C’è da chiedersi come mai pochi professionisti ne approfittino per esporre le proprie idee a difesa dei perseguitati. In altre parti del pianeta non è così. Limitandoci all’ultimo fronte caldo: dallo scorso 7 ottobre – riferiva un rapporto del 15 dicembre di Reporter senza frontiere – tredici giornalisti sono stati uccisi dall’esercito israeliano nella Striscia di Gaza e uno dai miliziani di Hamas in Israele, altri tre in Libano. In Ucraina nel 2023 ne sono morti «solo» due (una dozzina nel 2022). Ma i corrispondenti assassinati sul campo sono solo la punta dell’iceberg. Per ogni reporter ucciso nel mondo possiamo contarne centinaia di altri perseguitati, minacciati, zittiti, silurati o scomparsi. Riuscirà a fuggire dalla vendetta di Putin, per esempio, Marina Ovsyannikova, la redattrice che nel marzo 2022 aveva innalzato un cartello contro la guerra in Ucraina durante una diretta tv in Russia, è stata arrestata, ha fatto mea culpa e dopo essere scappata in Francia con la figlia è stata condannata in contumacia a otto anni e mezzo di carcere da un tribunale russo e ora teme di essere avvelenata?

Tifiamo per lei e per gli innumerevoli «signori e signore nessuno» della stampa perseguitata, braccati, stanati e uccisi all’insaputa del mondo. Prestiamogli la nostra voce, glielo dobbiamo. A noi costa poco, ma potrebbe essere l’unico risarcimento per il loro sacrificio nascosto. Se non lo scriviamo noi dalle nostre oasi di pace, chi altro potrà farlo?