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La ricchezza protagonista delle serie TV
Aldo Grasso
Se uno pensa a grandi romanzieri come Charles Dickens, Émile Zola, Giovanni Verga pensa all’idea di romanzo sociale. Attraverso le vicende del giovane Oliver Twist, Dickens descrive la situazione di vita nei bassifondi londinesi e le ingiustizie della società vittoriana. Germinal racconta gli scioperi dei minatori nella cornice della grande crisi economica di fine ’800. Nei Malavoglia vengono descritte le sfortunate vicende di una famiglia catanese e l’ambiente da cui, inutilmente, lottano per uscire. Ogni opera è figlia del suo tempo, e il romanzo sociale descrive il grande rivolgimento provocato dalla nascita della società industriale, quando i contadini abbandonarono le campagne per trasferirsi in massa in città, andando così a ingrossare i ghetti dei centri urbani.
Ecco la domanda provocatoria: perché la narrativa moderna, rappresentata soprattutto dalla serialità televisiva, parla così volentieri di ricchezza, di famiglie agiate? Per disprezzo o per fascinazione? Il cinema si è sempre interessato delle classi sociali più facoltose, magari per trarne allegorie come nel caso del film Il fascino discreto della borghesia di Luis Buñuel, una dissacrazione surreale della morale cristiano-borghese e del conseguente ordinamento sociale.
La serialità televisiva si rivolge a un pubblico più vasto e indistinto, sorretta da un orientamento progressista avverso alle classi più abbienti. Basti citare uno dei casi più famosi, quello di Succession, serie TV di HBO, che racconta una saga familiare che ha per protagonista un magnate miliardario del settore dei media, ispirato a Rupert Murdoch, e i suoi figli subdoli, incapaci, fannulloni, diabolici, invidiosi. Nella serie le classi subalterne compaiono poco, e i protagonisti sono ridicolizzati prima di tutto per la loro inettitudine. La loro ricchezza sfrenata è parte del paesaggio, paesaggio che rappresenta anche una parte importante dell’attrattiva della serie: dai vestiti bellissimi alle ville in Toscana, dai giganteschi yacht agli attici su Manhattan.
O di Billions: nel mondo cinico dell’alta finanza newyorchese, a contare è solo e soltanto il denaro (i «billions», miliardi, del titolo).
Basti pensare che l’interesse per il racconto seriale è iniziato alla fine degli anni Settanta con il successo di Dallas. A Dallas erano tutti ricchi e cattivi. Nell’intrico di colpe (ogni personaggio aveva la sua piccola «odissea del rancore» da illustrare), si rompe uno degli schemi classici della rappresentazione del «cattivo». In passato, il cattivo era solo, anzi la solitudine era proprio uno dei tratti distintivi di quel sinistro brio che anima la cattiveria. Non si dava opera lirica con tutti i baritoni a contendersi la competenza del male, due Innominati sarebbero stati troppi, l’altra faccia di Biancaneve era ed è una e una sola. J.R. era persino commovente, per lo zelo che profondeva nell’impegno diabolico di boss ricco e spietato.
Anche il pubblico più giovane non è rimasto indifferente a queste tematiche; basti pensare a Gossip Girl, serie cult creata da Josh Schwartz e Stephanie Savage, tratta dai romanzi di Cecily von Ziegasar, e andata in onda dal 2007 al 2012 (sei stagioni). Quando Dan (Penn Badgley) si trasferisce con la sua famiglia di bassa estrazione a Brooklyn entra in contatto con le creature apparentemente irraggiungibili dell’Upper East Side e viene trascinato nel loro mondo luccicante, tra party altolocati e sfilate di alta moda, innamorandosi delle due reginette della scuola, le nemiche-amiche Serena (Blake Lively) e Blair (Leighton Meester).
«I soldi – ha scritto Giulio Silvano su «Rivista Studio» – sono sempre stati un grandissimo strumento narrativo. Spesso il raggiungimento di uno status economico ha permesso di ottenere quello che si voleva, come l’attenzione di una donna amata in gioventù quando si era poveri – Il Grande Gatsby – oppure ottenere la vendetta – Il Conte di Montecristo. Lì c’era un’immedesimazione con il protagonista. Oggi l’immedesimazione con un Kendall Roy (il protagonista di Succession, ndr) è più difficile. Non partecipiamo con lui all’ottenimento della fortuna, alla conquista di una bacchetta magica che tutto può (in questo i miliardari sono più simili ai supereroi Marvel, dove i miliardi sostituiscono i superpoteri), al massimo facciamo il tifo per lui nello scontro con un altro miliardario, per finta pena o simpatia».
La messinscena della ricchezza è un gesto di irrisione o di paura per una nuova povertà?