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Parvin, il volo della farfalla libera

/ 11/12/2023
Melania Mazzucco

Da piccola, più di tutto voleva passare inosservata. Occhi scurissimi, folti capelli neri, pelle chiara: nulla la distingueva dalle compagne di classe discendenti dei «terroni», lì immigrati negli anni Sessanta. Tranne il nome: Parvin. La dichiarava, senza equivoci, straniera. Così si faceva chiamare Vanessa, il che le sembrava un giusto compromesso fra l’origine e la persona che voleva essere. In farsi, Parvin significa farfalla. Non parlava volentieri né del Paese da cui proveniva né della storia che l’aveva condotta in Italia. Del resto nessuno glielo chiedeva. Negli anni Ottanta, l’Iran era avvolto da un’aura fosca di religione, barbe e màrtiri. Ai più insistenti, o i più intimi, diceva piuttosto, con orgoglio, di essere persiana. Agli italiani istruiti – scoprì al liceo – la Persia era familiare. Studiavano le guerre dei Persiani contro i Greci, Ciro, Dario, gli Achemenidi. La parola «persiano» aveva qualcosa di grande, tragico e nobile.

Parvin sapeva di essere stata ricca, o almeno benestante, ma non aveva fatto in tempo a capirlo, perché quando con la famiglia era fuggita da Tabriz non aveva ancora nove anni. Si era ritrovata in Italia senza sapere perché, tra i tanti paesi in cui si erano dispersi gli amici dei genitori, proprio loro erano capitati in una cittadina della Lombardia. Né il padre le spiegò mai quali fili l’avevano guidato fin lì. Sapeva solo di appartenere alla famiglia degli esuli politici – immensa, poiché nel Novecento in quattro continenti rivoluzioni e colpi di stato avevano sparpagliato nel mondo milioni di persone. Rispettati e ben visti se in fuga dalla tirannide o dalla repressione. Altrimenti sospettati di essere contro-rivoluzionari. Il padre finì per ammalarsi quando realizzò che nella nuova città tutti coloro che per idee, esperienze e cultura riteneva suoi potenziali nuovi amici lo credevano invece un cortigiano dello shah – e pur senza dirglielo lo disprezzavano per questo.

Della loro vita precedente non avevano potuto salvare nulla. La madre, gli abiti che aveva addosso e alcuni gioielli cuciti nell’orlo della gonna; la sorellina una bambola e lei l’astuccio con le penne della scuola. Si erano ritrovati a vivere in un seminterrato, a dipendere dall’aiuto di misteriosi benefattori, ad attendere qualcosa che però non arrivava mai. Logorati dalla nostalgia, il padre e la madre parlavano sempre del passato, della loro giovinezza animata dall’ideale, degli amici morti o incarcerati, delle montagne, delle rovine di Takht-e-Suleiman dove andavano in gita, dei colori del paesaggio perduto che ancora gli divorava il cuore. Come tutti gli esuli, inizialmente si auguravano che il loro espatrio sarebbe durato qualche anno. Invece nessuno dei due ha vissuto abbastanza per tornare mai in Iran e sono morti entrambi, piuttosto giovani per lo standard occidentale, in un Paese cui serbavano gratitudine per averli accolti e perfino assimilati, ma in cui sono rimasti, sino alla fine, provvisori. Parvin invece cominciò ad andare a scuola, imparò la lingua e relegò i ricordi «di prima» in uno spazio segreto della memoria, cui nessuno – alla fine nemmeno lei – aveva accesso.

È stata italiana per quarant’anni. Ha sposato un italiano, è diventata insegnante d’inglese, ha avuto due figlie. Che col passaporto italiano sono andate in Iran per turismo e le hanno mandato cartoline da Persepoli – sorridenti sotto il toro della porta delle Nazioni. Lei invece non è mai voluta tornare. Ma da quando lo slogan «Donna vita libertà» risuona in tutto il mondo, e le fotografie, e i nomi delle ragazze morte scorrono nelle immagini e nei servizi del telegiornale, la diga ha ceduto. Per la prima volta è andata in piazza, per partecipare a un presidio organizzato nel capoluogo, e si è ritrovata unica signora sui cinquant’anni in una folla di giovani – che potrebbero essere le sue figlie, o i suoi genitori. E si è riconciliata con Parvin. La farfalla è il simbolo della trasformazione. Dalla crisalide finalmente si libra in volo una donna libera.