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Via Giuseppe Barbaroux

/ 27/11/2023
Bruno Gambarotta

Vista sulla pianta della città di Torino, via Barbaroux è una crepa, una stringa stretta e sinuosa parallela a via Garibaldi, da piazza Arbarello a piazza Castello. Qui la lunga vetrina di un bar offre in mostra ai rari passanti un giovanotto e una ragazza seduti allo stesso tavolino che non si guardano, gli occhi incollati allo schermo dei rispettivi cellulari, i loro pollici impegnati compulsivamente a battere sui tasti. All’estremo opposto, in piedi, c’è un terzo giovane intento a leggere messaggi whatsapp sul suo smartphone. Sono tutti e tre concentrati. La ragazza ha appena inviato un messaggio al giovanotto in piedi nel quale gli comunica che la loro storia è finita. È stato bello finché è durato ma adesso lei si è innamorata, ricambiata, del suo migliore amico, seduto al tavolino accanto a lei che sta a sua volta inviando un messaggio al giovanotto in piedi per consolarlo, spiegargli che così è la vita, che spera che rimarranno amici. Il giovanotto in piedi non reagisce, si limita a leggere entrambi i messaggi. Dietro il bancone il barista con un gesto meccanico passa uno strofinaccio sui bicchieri. Il grande televisore della sala è acceso e silenziato. Scorrono le immagini del Grande Fratello e il barista vorrebbe essere lì. A suo tempo aveva fatto domanda per parteciparvi, già alla prima selezione l’hanno escluso. Anche i tre giovani vorrebbero evadere dall’acquario, ma non sanno come farlo con stile, salvando un residuo di dignità. Così nessuno si azzarda a uscire per primo. Esauriti i bicchieri, il barista inizia a strofinare i piattini. Al di là del vetro, nella stessa strada che porta ancora il nome di via dei Guardinfanti, a metà dell’Ottocento passano tre giovani donne: indossano gonne lunghe fino a terra, con una mantellina chiusa al collo e una cuffia allacciata sotto il mento; i piedi infilati negli zoccoli. In quel tratto di strada si allineano le botteghe degli artigiani che fabbricano quell’intelaiatura circolare a forma di campana da indossare sotto la gonna per mantenerla gonfia. Le donne sono sarte e hanno fretta di ritirare i guardinfanti per le signore invitate al Gran Ballo dato dai principi di Savoja Carignano che un tempo abitavano in quella strada.

Di fianco a quello che era stato il palazzo dei principi di Carignano si trova l’albergo della Bonne Femme; le tre donne conoscono la dubbia fama di quell’albergo e non resistono alla tentazione di dare una rapida occhiata. Ne sta uscendo una cortigiana. Avvolta in una mantellina color vinaccia, un fagotto sotto il braccio, ha un bel tentare di sembrare una donna onesta, il fiuto di una sarta è infallibile. Le tre si infilano nella bottega dell’artigiano, di fronte all’albergo. La cortigiana stringe l’involto al braccio e risalendo la via, passa davanti alla vetrata del bar. La donna attraversa via San Francesco d’Assisi e continua in via dei Guardinfanti che ora ha cambiato nome, è diventata via della Madonnetta. Lì si trovano le Regie Carceri Correzionali. Dove è rinchiuso, in attesa del processo, il protettore della cortigiana, che sta andando a portargli un pacco di biancheria pulita. La donna è preoccupata perché un suo affezionato cliente, uno dei primi avvocati di Torino, con il quale si è intrattenuta fino a poco prima in una stanza dell’albergo Bonne Femme, le ha detto che il nuovo ministro guardasigilli per gli Affari di Grazia e Giustizia, appena nominato dal re Carlo Alberto, ha manifestato l’intenzione di inasprire le pene per il reato di prossenetismo.

«Non si potrebbe fare qualcosa per ammorbidire questo ministro?» aveva domandato la cortigiana al suo cliente.

«No, purtroppo», aveva risposto l’avvocato. «È un uomo molto pio, è nato a Cuneo e ha fama di essere incorruttibile».

«Come si chiama questa perla rara?».

«È il conte Giuseppe Barbaroux».

La cortigiana attraversa via Botero. All’incrocio, appoggiati al muro, stazionano con aria indolente tre uomini. Lì accanto c’è il Monte di Pietà dove chi ha necessità urgente di denaro va a impegnare gioielli, posate, lenzuola, orologi, pellicce. Quei tre hanno l’aria di avvoltoi, pronti a comprare polizze, a offrire prestiti, a comprare oggetti che gli impiegati del Monte rifiutano di prendere in pegno. Uno dei tre succhia uno stuzzicadenti e guarda verso l’alto. Legge la targa all’angolo delle strade: via Barbaroux. Sotto, più in piccolo, c’è scritto «Statista» ma lui non ci vede bene e legge «Stilista». Riflette: «Se proprio dovevano intitolare la via a un sarto, perché sono andati a scegliere un francese? Non era meglio dedicarla a un italiano che si fa onore nel mondo?».