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«Per Maria niente era troppo»
Aldo Grasso
Non c’è teatro lirico al mondo che non renda omaggio alla Callas, nel centenario della sua nascita. Maria Callas, al secolo Maria Anna Sofia Cecilia Kalogheropoulos, nasce il 2 dicembre 1923 a New York da genitori greci. Si dice che nella musica del XX secolo esistano un prima Toscanini e un dopo Toscanini. Allo stesso modo, parola di Franco Zeffirelli, ci sono «il prima Callas e il dopo Callas». Grazie a lei, il melodramma è tornato a essere (forse per l’ultima volta) arte popolare, colonna sonora di molte vite. Merito del suo talento, del suo timbro unico da «soprano drammatico».
Un giovane Alberto Arbasino segue ogni sua rappresentazione alla Scala di Milano: «E così abbiamo parlato, poi abbiamo sentito il resto dell’opera, dal momento che non volevo davvero perderla, una “prima” della Medea con Callas in straordinaria forma, una di quelle straordinarie serate di “sorge il diletto e l’estasi/in mezzo allo spavento”, tipo “a star is born”, con tutto il pubblico che applaude felice per quasi mezz’ora senza andar via alla fine dello spettacolo, e metà teatro che grida selvaggiamente di gioia…» (L’anonimo lombardo, 1966).
Tra i tanti giudizi di esperti e colleghi sono significative le parole del maestro Carlo Maria Giulini, che la diresse nella famosa Traviata di Visconti alla Scala (1955): «Fu un’esperienza indimenticabile. Per Maria niente era di troppo. Si costringeva a un tirocinio durissimo. Grande, grandissima professionista, oltre che immensa artista». E lo stesso Visconti: «Tutte le Traviate che verranno avranno un po’ della Traviata di Maria. (…) Le Violette future saranno Violetta-Maria. È fatale in arte quando qualcuno insegna qualcosa agli altri. Maria ha insegnato». Sono questi anni a costituire il culmine di una carriera in cui i successi, ancorché non privi di disavventure e imprevisti, si susseguono l’un l’altro.
Come in tutte le leggende (e nelle regole narratologiche), l’inizio comporta una prova da superare, un elemento perturbatore che pone ostacoli da superare. «Mi fece l’effetto di una donna sgraziata. Pesantissima, stazionata. Una ciabattona». È la descrizione crudele che la sorella di Giovanni Battista Meneghini, futuro marito della cantante, fa di Maria Callas nel 1947, durante i primi mesi in Italia, a Verona.
Eppure, Callas, con una determinazione pari solo al desiderio di apprendere, mira da subito alla classicità: sacerdotessa del bel canto, virtuosa, tragica. I critici parlano della sua apparizione come di un passaggio sconvolgente, di una mirabile presenza scenica che sapeva unire l’intelligenza artistica all’innato carisma, di una ricerca della perfezione senza limiti.
Callas è stata la prima cantante lirica a godere di una grande esposizione mediatica, grazie ai suoi successi ma anche alle sue tormentate vicende amorose (dal raggiro perpetrato dal marito padre-padrone Meneghini, il quale le avrebbe sottratto più di metà del suo patrimonio, al tradimento di Aristotele Onassis che la lasciò per Jackie Kennedy), alle care amicizie (Luchino Visconti, Franco Zeffirelli, Pier Paolo Pasolini con cui girò il film Medea). Attorno a lei, grazie anche agli intellettuali prestati al «bel canto», nacque un vero e proprio culto, sfociato nell’appellativo di «divina» che ancora oggi ne accompagna il nome.
Callas diventa divina dopo un lungo, faticoso processo di noviziato. All’inizio carriera, i giornali la descrivono come una ragazzona prosperosa dai grandi occhi miopi. Quando da Sirmione si trasferisce a Milano, comincia a frequentare l’atelier di Biki (Elvira Bouyeure, amica intima di Wally Toscanini) Maria si accorge di non avere il fisico adatto per indossare i modelli della raffinata stilista. Torna trasformata, dopo un faticoso dimagrimento: è un’altra donna, elegantissima, trucco vistoso per mettere in risalto gli occhi.
Cantò per l’ultima volta al Teatro alla Scala l’11 dicembre 1961, e in quella Medea si individua, forse, l’esecuzione più alta di sempre. Dino Buzzati, presente in platea, ci lascia un’istantanea: «Era bellissima. A un certo punto si gettò a terra lunga distesa, così rimanendo immobile. Non ho mai visto nessuna donna distesa a terra con tanto stile ed eleganza».
(A completare il ritratto della «divina» c’è l’articolo di Giovanni Gavazzeni).