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Usi e abusi della narrazione

/ 27/11/2023
Paolo Di Stefano

Tutto è narrazione (2). Tutto è terribilmente, ossessivamente storytelling (1). A proposito dell’omicidio più sviscerato dalle cronache delle ultime settimane, quello della povera Giulia Cecchettin per mano (e coltello) dell’ex fidanzato Filippo Turetta, sono state variamente evocate: la «narrazione tossica del bravo ragazzo», la «narrazione del femminicidio», la «narrazione del lupo cattivo», la «narrazione maschilista», la «narrazione scandalistica», la «narrazione psicoanalitica», la «narrazione sociologica», la «narrazione moralistica», la «narrazione generazionale», la «narrazione patriarcale», la «narrazione misogina», e si potrebbe continuare con le infinite declinazioni dello storytelling legate all’immane delitto. Non ci sarà da meravigliarsi se tra poco arriverà il docu-film, ovvero la fiction dei fidanzati di Vigonovo. Del resto, non sarebbe una novità. Il 29 ottobre 1963, passate neanche tre settimane dalla strage del Vajont che fece quasi duemila morti, il critico Giovanni Grazzini (5+) commentò duramente sul «Corriere della Sera» il progetto di una casa cinematografica romana che annunciava un film intitolato Vajont e sottotitolato Appuntamento con la morte. Grazzini si diceva colpito dalla «fulmineità del trapasso dalla realtà alla finzione». Oggi, sessant’anni dopo, non servono tre settimane: il trapasso è immediato. La cronaca comprende già in sé, praticamente in diretta, la messinscena dello storytelling. La realtà è subito finzione (o opinione).

Sedotti dalle storie (5½) è un saggio del critico americano Peter Brooks, appena uscito in Italia (Carocci editore), dedicato agli usi e agli abusi della narrazione. Dalla politica alla pubblicità, dalla giustizia alla medicina, non abbiamo altro che narrazioni: tutto si risolve nella forma del racconto, perché «non c’è nulla al mondo più forte di una buona storia». A cosa si deve questa abbondanza di storie? Secondo Brooks si deve alla possibilità di ingannare, perché c’è sempre una bella differenza tra ciò che è accaduto e il racconto di ciò che è accaduto: «L’universo non corrisponde – scrive Brooks – alle nostre storie sull’universo». Per decifrare lo scarto tra l’universo e il racconto dell’universo serve una buona capacità critica, ed è ciò che Brooks auspica: quanto più si diffondono le narrazioni, tanto più si richiede un ritorno alla critica (letteraria), cioè alla capacità di decifrare e decostruire un testo narrativo con le sue menzogne, i suoi punti di vista, le sue messinscene.

Restando nell’argomento, è uscito un libro (Del narrare, Einaudi) che raccoglie i saggi di Daniele Del Giudice (6), alcuni già editi, altri recuperati nel suo archivio da Enzo Rammairone, che cura il volume. Del Giudice è morto nel 2021 e, oltre a scrivere racconti e romanzi, è autore di notevoli riflessioni sul mestiere. Partendo in ordine sparso dai suoi autori preferiti: Primo Levi, Calvino, Magris, Svevo, Zweig, Bernhard, Freud, Stevenson, Conrad, Verne, Del Giudice dichiara la relazione «assolutamente probabilistica» tra parole e cose. La narrazione, il racconto, le storie sono per lui nient’altro che «reti per agganciare la realtà, per inventarla». Naturalmente si parla di narrazione letteraria, non di narrazione giudiziaria, pubblicitaria o politica, ma ciò non toglie che la distanza tra parole e cose sia altrettanto «probabilistica». Il fatto è che, diversamente da chi usa la narrazione per scopi utilitaristici e/o legati all’attualità (politici, giornalisti, pubblicitari eccetera), lo scrittore ha ben presente che sta lavorando nel campo delle probabilità e dunque della sfera dell’incertezza: sembrerà un paradosso, ma nell’usare le parole, lo scrittore è il più incerto (e dunque il più cauto) di tutti. Quando Giorgia Meloni e la destra italiana (2+) invitano alla lettura di Tolkien, promuovendo una mostra alla Galleria Nazionale di Roma per portarlo dalla loro parte, in realtà gli fanno il torto peggiore. Finiscono cioè per trattare i suoi romanzi come fossero le loro proprie mediocri narrazioni: tendenziose e utilitariste. Senza sapere che era lo stesso Tolkien, poveretto, a dichiarare: «Io non predico e non insegno nulla». Viene in mente una riflessione che Kundera inviò nel 2000 alla convention dei democratici americani, citando una frase di Hermann Broch: «Un romanzo dovrebbe esprimere soltanto quello che il romanzo può esprimere». Può, non deve, appunto (6+).