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Gli steli al neon di Dan Flavin a Basilea

/ 20/11/2023
Oliver Scharpf

Quando incominciano a cadere le foglie e l’imbrunire inizia a diventare brusco, bisogna correre ai ripari, trovare vie di fuga. Una di queste, oltre ai tearoom, le candele, il camino, il violetto elettrizzante catturato delle Lepista nuda, sono alcune luci al neon. Meglio ancora in giorni di pioggia dopo le cinque, per via dei riflessi prolungati sul pavimento lucido come adesso, appena sbucato nel cortile del Kunstmuseum di Basilea. Dove mi accolgono i primi due steli al neon alti milletrecentoquarantadue centimetri, uno verde, all’angolo destro, l’altro giallo all’angolo sinistro. Undici tubi fluorescenti – ritmati da un rapidissimo silenzio senza luce alla fine di uno e l’inizio del seguente – si ergono da terra al terzo piano. E colgo, al contempo, le loro due linee riflesse su lastre bagnate di pietra calcarea di Soletta e Neuchâtel, intercalate al granito di Castione. Dopo qualche passo sovraeccitato, si affiancano alla traiettoria gialla e verde, sposando la porosità della pietra e lo specchio delle pozzanghere, i riflessi più brevi di altre due steli fluorescenti rosa e giallo. Celati a prima vista, due tubi di centoventidue centimetri l’uno, si trovano sotto i portici, echeggiando nei rispettivi angoli: il rosa combinato al giallo e il giallo al verde.

Ideata nel 1972, l’installazione permanente di Dan Flavin (1933-1996) vede la luce nel 1975, in occasione di una sua mostra di disegni e stampe inaugurata l’otto marzo di quell’anno nelle sale di questo museo nato nel 1936. Opera di Rudolf Christ e Paul Bonatz – co-autore, quest’ultimo, della solenne stazione ferroviaria di Stoccarda – tra monumentalismo neorinascimentale e sprazzi di rusticità heimatstil, ospita ancora, oltre a molto altro, la più antica (1671) collezione d’arte pubblica al mondo. Intitolata untitled con un dedicatario tra parentesi come quasi tutte le opere di Flavin, questa installazione site specific si completa quando vi voltate verso dove siete venuti: altri due steli si elevano ancora per milletrecentoquarantadue centimetri lungo l’edificio. Blu da una parte, rosso dall’altra. A questi ventidue tubi agli angoli, come prima, sotto il portico, fanno eco quattro tubi: verde con il blu, blu con il rosso. Cinquantadue tubi standard in tutto dunque, formando otto steli, emanano luce fluorescente primaria consolando matematicamente i malinconici. Non emostatico come il memorabile Varese corridor (1976) visitato e studiato anni fa a Villa Panza, l’effetto degli steli al neon di Dan Flavin a Basilea (270 m) una fine pomeriggio in pieno autunno quando il buio inizia a piombare di colpo, è comunque una guarigione dello sguardo. Non ancora proprio buio, assaporo la luce made in USA spalmata sulle facciate composte soprattutto dal bluverdegrigio dei blocchi di calcare conchiglifero di Othmarsingen; poi dal beige del calcare di Soletta, gli innesti di granito chiaro di Castione e quelli più scuri, antracite-carbone, del granito di Osogna.

Dell’importanza dell’opera di questo artista nato a New York e morto a New York, per l’architettura del museo e il suo influsso sui visitatori, mi rendo conto però solo più tardi, verso l’ora di chiusura, al primo piano. Una signora, distrutta dal girare e guardare, si è addormentata su una poltrona, i guardiani, esausti, con volti lividi stile Otto Dix, non vedono l’ora di andarsene, io dopo un’overdose di Böcklin, mi aggiro lento e rintronato con passi da Pantera Rosa. E un bagliore al neon blu, inatteso, arrivato da una certa distanza attraverso le finestre, pervade la sala con un tocco rivitalizzante e pacato, posandosi ad accarezzare la colonna calcarea solettese levigata al punto da parere marmo.

Mi accorgo di aver dimenticato Urs Graf (1485-1529): notevole incisore svizzero dedicatario dell’opera di Dan Flavin. Infine, stremato da troppi capolavori, esco nella sera. Le sculture di Chillida, Rodin, Calder, nel cortile al buio, a dire il vero, ora mi sembrano cianfrusaglie che ostruiscono lo spazio per godersi in pace, sulla pietra lucida di pioggia, lo specchiarsi degli steli al neon. «Dovrebbero fare un monumento all’uomo che ha inventato le luci al neon» scriveva Raymond Chandler in La sorellina (1949). Un tempo, l’atmosfera Chandler, qui a Basilea, si respirava al Rio bar, dove regnava, sopra i bevitori, un filo di neon rosa aureolare.