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Gratuità non fa rima con utilità
Lina Bertola
Entro in una boutique per acquistare una maglietta. Mentre mi guardo in giro la commessa si avvicina con sorriso suadente e complice: «Buongiorno, la informo che se ne acquista due la terza è gratis!». Siccome mi occorre una sola maglietta, la scelgo con cura e la pago a prezzo intero senza dar peso alla sua generosa offerta, che comunque riesce a insinuare un dubbio: avrò fatto bene o mi sono persa qualcosa?
In seguito ho ripensato a questa strategia di marketing sempre più gettonata, non solo per l’acquisto di prodotti alimentari non deperibili, ma anche per l’abbigliamento: magliette, pullover, jeans e via dicendo, il tre per due imperversa ovunque e sembra avere successo, forse perché l’idea di portare a casa qualcosa gratis non lascia proprio indifferenti. Una cosa gratis è gratuita, non devo pagarla: ciapp’istess urlava Enzo Jannacci in una memorabile canzone, ciapp’istess e tante grazie!
Accade così che nel linguaggio quotidiano l’idea di gratuità venga spesso snaturata, tradita nel suo significato originario e consegnata al richiamo di quell’utilità che orienta le nostre scelte ma con cui non ha proprio nulla a che vedere. Un gesto, un’azione, un atteggiamento gratuiti sono infatti pura finalità, qualcosa che ha valore in sé stesso: un gesto gratuito, o meglio la gratuità di un gesto, non ha altri scopi, non ha niente a che fare con l’utilità, con il calcolo, con il tornaconto.
Il significato originario della gratuità è stato illustrato bene dal filosofo Immanuel Kant nel descrivere la legge morale: l’azione morale è pura gratuità, è un devo perché devo, un imperativo che muove il mio agire, senza condizioni. Al contrario, una buona azione che abbia uno scopo fuori di sé, che sia in qualche modo utile per qualcos’altro, rimane certamente buona, ma non ha niente a che vedere con il valore morale della gratuità. Noi però tendiamo a valorizzare le nostre scelte soprattutto in base alla loro utilità ed efficacia: che cosa mi conviene fare in questa situazione? Anche quando scelgo di aderire al due per tre, la gratuità della merce è legata alla sua convenienza. Eppure ciò che è gratuito non dovrebbe mai dialogare con il calcolo e con il tornaconto.
Questa contaminazione tra il significato di gratis e quello di gratuità crea confusione. Confonde la quantità dell’avere con la qualità dell’essere. Perché il prezzo cancellato di una merce riguarda una quantità, ed è anche un invito implicito a fare la scorta, ad avere di più. Siamo davvero lontani dal gesto gratuito, dalla sua qualità non misurabile che un prezzo non l’avrà mai, proprio perché estraneo a ogni calcolo. In un certo senso la gratuità è sempre inutile o meglio, fuori dall’utile. Spesso tuttavia non riusciamo a coglierne il valore nella sua essenza, nella sua purezza e nella sua bellezza.
Capita non di rado che mi venga chiesto a che cosa serva la filosofia: «a nulla», rispondo sempre con slancio, «non è serva di nulla… è inutile». Un po’ disorientante come risposta, perché la ricerca dell’utilità e della convenienza condiziona i nostri pensieri e le nostre scelte, non solo di fronte alle vetrine invitanti e alle loro accattivanti offerte (per inciso, anche offrire dovrebbe essere di per sé un gesto donativo gratuito, eppure si trasforma allegramente in offerta promozionale).
Il valore di ciò che è ritenuto utile attraversa tutta la nostra esperienza, si espande anche in ambiti che interpellano i vissuti più profondi e più intimi. Penso innanzitutto alle relazioni personali. Che cosa ci perdiamo quando, ad esempio, relazioni pur vissute con sincera partecipazione, sono motivate anche dal fatto che le riteniamo importanti per la nostra attività professionale, o sono sostenute dalla convinzione che possono esserci d’aiuto nelle difficoltà? Ci perdiamo ciò che sta fuori dall’utile, in primis perdiamo la bellezza di donare e di donarsi senza attendere di ricevere qualcosa in cambio, perdiamo la possibilità di sperimentare un incontro autentico in cui il dare e il ricevere non sono mai un semplice ricambiare, ma sono uno stare insieme che crea legami aperti all’accoglienza, all’accoglienza dell’altro per ciò che è, per il suo esserci.
Poi penso alla scuola che dovrebbe portare i giovani ad amare la bellezza della conoscenza. Anche la scuola si sta perdendo qualcosa. In ostaggio alle aspettative sempre più utilitaristiche della società, questa sua intrinseca, gratuita bellezza rischia di soffocarla. Si deve studiare per prendere buoni voti, per passare la classe, per imparare un mestiere, per costruirsi una bella posizione nella vita. Con buona pace della gratuità e del desiderio di far fiorire il nostro esserci.