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L’inarrestabile corsa del giovane ginevrino
Bruno Gambarotta
Torino, 21 aprile. Sulla piccola piazza del Corpus Domini arriva un breve corteo uscito dal vicino Ospizio dei Catecumeni. Al centro cammina un ragazzo di sedici anni, indossa una speciale veste grigia con alamari bianchi. È svizzero, di Ginevra, allevato nella fede calvinista, è arrivato a Torino da Annecy, a piedi. Grazie alla conversione si guadagnerà da vivere come valletto nel palazzo dei conti Solaro di Govone. Nel corteo è preceduto e seguito da due uomini che portano ciascuno una bacinella di rame sulla quale picchiano ritmicamente con una chiave. Quei colpi sono un esplicito invito ai passanti a versare un’offerta per il neo convertito. Il quale, saliti i gradini della chiesa del Corpus Domini, si volta a guardare la piazza. Quando uscirà dopo aver ricevuto il battesimo, sarà a tutti gli effetti un cattolico. Sulla casa di fronte legge un’insegna: «El Mir ristorante libanese» e gli vengono in mente le parole «miroir» e «mirage»: per un ristorante di cucina esotica è meglio chiamarsi Lo Specchio oppure Il Miraggio? Forse con le offerte raccolte al suo passaggio potrà togliersi il capriccio di provare la cucina libanese.
È il 2 settembre. Il giovane valletto siede a un tavolino del ristorante. Ha dovuto attendere quattro mesi, la questua aveva reso solo 26 franchi. Un giorno lontano i suoi molti nemici – veri o presunti – lo accuseranno di essersi convertito solo nella speranza di guadagnare un bel gruzzolo. Sta per domandare al padrone del ristorante che cosa significa in arabo «El Mir» quando l’aria è saturata da un furibondo scampanio. Cosa succede? È scoppiato un incendio? Il nemico è alle porte? Padrone e avventore escono sulla piazzetta e osservano un rivolo di donnette salire i gradini e sparire dentro la chiesa. «Andiamo a vedere», propone il padrone. E si avvia. Il ginevrino esita, dal giorno del battesimo non ha più messo piede in quel luogo che gli ricorda penitenza e umiliazione. Sarebbe complicato spiegare, perciò compie quei pochi passi che lo separano dal luogo sacro. Entrano e, quando gli occhi si sono abituati alla brusca diminuzione della luce, intravedono sullo sfondo, in piedi contro l’immagine della Madonna, un prete che parla di una donna francese incinta e malata, già madre di cinque figli, morta nella scuderia del vicino albergo della Dogana Vecchia. L’ospedale delle partorienti non l’aveva voluta perché febbricitante, l’ospedale degli ammalati l’aveva respinta perché incinta, il prete aveva fatto appena in tempo a impartirle l’estrema unzione. Ha deciso: con l’aiuto dei parrocchiani, aprirà la Casa della Volta Rossa, con quattro letti per ospitare i malati respinti dagli ospedali. Quel prete ignora che da quell’albergo della Dogana Vecchia il 16 gennaio erano usciti due musicisti, un padre e un figlio di 15 anni, in viaggio da Salisburgo. Andavano al Teatro Regio per assistere alla prima rappresentazione del dramma per musica Annibale in Torino di Giovanni Paisiello. Il giovane ginevrino è spinto in avanti dai parrocchiani che continuano a entrare. Giunto all’altezza della cappella dedicata a San Giuseppe, è circondato da un gruppo di turisti accompagnati da una guida che attira la loro attenzione su una piccola lapide: «Di qui pregando il Venerabile Giuseppe Cottolengo sorse fondatore e padre della piccola casa della Divina Provvidenza». La guida informa: «In sagrestia sono conservati i registri dei battezzati. Se a qualcuno di voi interessa possiamo chiedere di vedere quello dove c’è la firma di un celebre convertito, il filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau».
Ascoltando quelle parole, il giovane prova una repulsione irresistibile per quel luogo, si volta e, fendendo a forza la massa compatta dei fedeli, esce dalla chiesa. Sulla piazza si è radunata un’altra piccola folla attorno a un mulo che ha piegato le ginocchia a terra e rifiuta di rialzarsi. La vista del padrone che, inferocito, percuote selvaggiamente la povera bestia, fa inorridire il valletto. Via di corsa, il più lontano possibile. Quando non ha più fiato si ferma ansante sotto la volta di un portone e lì ha modo di ascoltare non visto due donne del popolo che parlano di un miracolo. Non tutte le parole giungono chiare: sente parlare di ladri che hanno saccheggiato una chiesa di Exilles in val di Susa, della refurtiva caricata su un mulo che, giunto a Torino, cade a terra, del legaccio del sacco che si rompe, dell’ostensorio d’argento levato in alto dal quale esce un’ostia raggiante. Arriva il vescovo Ludovico di Romagnano: scendono prima l’ostensorio e poi l’ostia quando il vescovo promette di elevare su quel luogo una chiesa dedicata al miracolo del Corpus Domini… Udendo quel nome, il giovane ginevrino riprende a correre. Corre, corre, e non si ferma più.