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Sua Rapidità il Polpastrello
Paolo Di Stefano
Si torna a discutere sulla necessità (urgenza) di non abbandonare la scrittura a mano. Una mostra al Romantik Museum di Francoforte (5+), chiusa il mese scorso, ne ha percorso lo sviluppo soprattutto ottocentesco: per noi è interessante sapere che mentre le scuole di scrittura un tempo avevano per oggetto la calligrafia, oggi le scuole di scrittura che nascono ovunque come funghi (ma non sempre sono porcini, dunque 4-) prescindono da ogni aspetto materiale e si concentrano sulla improbabile promessa di creatività (1 – di scoraggiamento alla creatività). Come se manualità e creazione artistica fossero due cose separate.
Intanto, i siti didattici e psicologici non esitano a illustrare i vantaggi neurologici della manualità scrittoria. Ma minimizzano o fingono di minimizzare quello che la nostra società considera come il comandamento irrinunciabile di ogni attività umana: la velocità. Primo: sii veloce, secondo: sii veloce, terzo: sii veloce, quarto: sii, eventualmente, se proprio vuoi, esatto e profondo. Abbiamo affidato il nostro destino all’agilità fulminea del polpastrello che, pronto a rispondere agli impulsi esterni, non ci pensa due volte a lambire il display. Nessuno dice che dall’epoca secolare della mano che scrive siamo passati al tempo della scrittura a (mena)dito (digitale, appunto), dalla fatica della penna alla mobilità non dell’intero dito ma del suo terminale, Sua Rapidità il Polpastrello.
Una mostra pavese, dopo quella di Francoforte, ha celebrato di recente l’archeologia della scrittura a mano, quella che precede la «caduta della cortina di carta» (così chiamata dal paleografo Armando Petrucci), cioè il passaggio dalla fisicità alla immaterialità dei testi. Rimane un catalogo pubblicato da Interlinea e intitolato, come la mostra, con un incrocio lessicale, Scartafacce. Sottotitolo: le mani, i volti, le voci della letteratura italiana del ’900 nel Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. È il famoso centro fondato da Maria Corti (6 con molti + alla memoria). Partiamo dalle facce, quelle riprese dalla fotografa Carla Cerati, artista dell’obiettivo e della penna. Ecco i poeti e i narratori negli anni remoti della lentezza: Giovanni Giudici con una sigaretta tra le dita, Alberto Arbasino con uno sguardo bambino in una libreria Feltrinelli, Franco Fortini in ascolto dentro una libreria di Milano, un gruppo di neoavanguardisti euforici (Luigi Malerba, Alfredo Giuliani e Arbasino baffuto), un profilo di Calvino un po’ triste e un po’ sorridente, un profilo di Giovanni Comisso ingrugnito, Buzzati con impermeabile alla tenente Sheridan, Natalia Ginzburg arcigna, Moravia e Parise elegantemente incravattati, Ottiero Ottieri con occhiali neri da agente segreto, Maria Luisa Spaziani imponente signora con grossi orecchini e piccola borsetta, Pasolini molto serio e molto concentrato su un foglio.
Ed ecco i fogli, i brogliacci, gli scarabocchi su quaderni, diari, taccuini, tovaglioli, le minute, gli scartafacci che piacevano al filologo Gianfranco Contini (6 con qualche + alla memoria), il primo che lesse l’opera letteraria non come un oggetto definitivo e immutabile, ma come il risultato di un processo creativo per lo più tormentato. Gadda fu l’esempio massimo del lavoro inesausto e però mai finito, del pentimento, dell’ossessione che traccia sulla carta ripetizioni, note meticolose, cancellature, sostituzioni e spostamenti. Nulla a che vedere con il foglio a quadretti vergato in un corsivo minuscolo e ordinatissimo, tipo scolaro d’altri tempi, dal poeta Camillo Sbarbaro che il critico Enrico Falqui affidò alla Corti avvertendola che quel quaderno, una «rarità assoluta», sembrava «giunto a noi da chissà quale evo». Da chissà quale evo arriva pure l’autografo del romanzo Corporale di Paolo Volponi, che uscì nel 1974 dopo un decennio di lavoro. E l’uso di inchiostri diversi per rendere più visibili le aggiunte nelle pagine di Riccardo Bacchelli. E le copie di (suoi) romanzi fittamente postillate da Arbasino, in vista di nuove edizioni, con correzioni e varianti a penna rossa e blu, e a matita gialla. E i foglietti volanti con disegni a biro che Montale lasciava in casa alla Gina, la sua governante, con varie istruzioni domestiche e affettuosità paterne. E gli appunti poetici che l’ipocondriaco Andrea Zanzotto segnava su certe scatolette di medicinali, quasi con l’urgenza di registrare immediatamente un’idea o un’intuizione. La rapidità era una necessità dell’animo, non una coazione per polpastrelli.