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Il Conte di Cavour e Piazza Carlina
Bruno Gambarotta
Torino: piazza Carlo Emanuele II è conosciuta da tutti come piazza Carlina. Di fronte al portone del civico 15 ci sono tre panchine verdi. Quella di destra è occupata da Deborah, una quindicenne, braccia tatuate e ombelico scoperto. Impugna il telefono e prova a chiamare Rosario, il suo ragazzo, trovando la linea sempre occupata.
Visto da qui il conte di Cavour, in piedi sul piedistallo in mezzo alla piazza, sembra appena uscito dalla sauna.
Deborah sa benissimo chi era Cavour. A scuola le hanno spiegato che l’Unità d’Italia l’hanno fatta i quattro supereroi, Cavour, Garibaldi, Mazzini e un re che adesso le sfugge il nome anche se ce l’ha sulla punta della lingua.
Ma – riflette Deborah – se quello sulla colonna è Cavour, come mai hanno intitolato la piazza a questa Carlina?
Sarà stata il suo grande amore. Deborah si immagina la scena: Cavour steso sul letto di morte che mormora: «Ho un ultimo desiderio da esprimere» – e tutti i presenti si chinano per sentire meglio.
«Pazienza il monumento, ma la piazza non la voglio».
«Cos’ha detto?» chiedono quelli che si trovano più lontani dal letto.
«Ha detto che non vuole più la piazza»
«Poverino», commentano, «se batte i coperchi non bisogna starlo a sentire. Le targhe agli angoli della piazza sono già state installate».
«Non sono fuori di melone!» si arrabbia il conte, «Voglio che la piazza dove avete voluto mettere il mio monumento sia dedicata alla Carlina, il mio unico grande amore» e finalmente muore.
Deborah pensa che bello sarebbe se un giorno il suo Rosario diventasse famoso e in punto di morte chiedesse di intitolare una piazza a lei! «Piazza Deborah» suona persino meglio di «Piazza Carlina».
Fra un tentativo e l’altro di trovare il telefono libero, vede uscire dal portone del numero 15 un giovane piccolo e magro con il collo avvolto in una lunga sciarpa. Ha una gran massa di capelli neri e gli occhi sono così vivi e spiritati che uno quasi non s’accorge che è un po’ rachitico. È un sardo di trent’anni, studente fuori corso; da quando vive in una soffitta di quel palazzo, e sono quasi due anni, esce tutti i giorni a quell’ora e attraversa la piazza; va a rincuorare i compagni che montano di guardia alla redazione del giornale da lui fondato; già due volte le squadracce fasciste hanno tentato di assalirlo e incendiarlo. Passando accanto al basamento del monumento a Cavour, colui che i rapporti di polizia definiscono un pericoloso agitatore pensa: chissà quanti torinesi sanno che al tempo dell’occupazione francese, al centro di questa che era stata ribattezzata Place de la Liberté sorgeva la ghigliottina. Dal 1800 al 1814 ebbero qui la testa tagliata 423 cittadini. Sarà vero, riflette il giovane, che ogni rivoluzione, per affermarsi, deve passare attraverso la fase del Terrore, deve tagliare teste a ripetizione? Finora è sempre andata così ma lui è certo che nella Russia dei Soviet il compagno Lenin non avrà bisogno di ricorrere alla ghigliottina per instaurare l’Ordine Nuovo.
Intanto sulla piazza irrompono i cavalieri della Guardia del Duca, si dividono in quattro manipoli e vanno ciascuno verso le tettoie che ospitano i tre mercati del fieno, della legna, del carbone e il peso pubblico e ordinano a tutti di sospendere ogni commercio, di riporre bilance, stadere e banchi. Tutti i presenti si affrettano a caricare i loro carretti, quando la moglie di uno dei mercanti arriva trafelata a portare la notizia. È accaduto che il Duca Carlo Emanuele II, mentre visitava i lavori esterni alle mura dalla parte del Po, si è spaventato a morte per aver visto cadere da cavallo il suo unico amatissimo figlio Vittorio Amedeo di nove anni che non si è fatto niente.
Il Duca fra otto giorni avrebbe compiuto quarant’anni. Perché se l’è presa tanto a cuore? Ha seminato in giro per il ducato 32 figli bastardi ma Vittorio è l’unico legittimato a succedergli. Lui a sua volta è stato un duca di seconda scelta, sua madre Cristina di Francia non lo stimava in grado di reggere la corona, per disprezzo lo chiamava Carlino. E Carlina chiameranno i torinesi la piazza a lui dedicata.
Deborah ha finalmente trovato la linea libera per parlare con Rosario. Litigano, forse lui le sta dicendo che resteranno sempre buoni amici. Lei piange senza ritegno e gli grida: «Se è così non voglio più la tua piazza! Non so che farmene di piazza Deborah!»