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Nnamdi, nato per essere un sarto e non un calciatore
Melania Mazzucco
A sedici anni, mentre langue – sfiduciato e depresso – in un centro di accoglienza per minori non accompagnati in attesa di conoscere il suo destino, uno degli operatori gli regala un paio di scarpini da calcio misura 46 e una maglietta della Juventus. Pensa di fare una cosa buona e giusta, perché Nnamdi è molto alto per la sua età, è atletico e nero, e dunque l’operatore dà per scontato che sia portato per lo sport e che in esso possa trovare il suo riscatto e perfino la sua fortuna. Del resto l’equivoco lo ha alimentato lo stesso Nnamdi, che quando, dopo lo sbarco, è stato interrogato, si è dichiarato vittima della tratta dei baby calciatori africani e convinto a venire in Europa col miraggio di un contratto da professionista. Qualcuno deve avergli detto che è un buon modo per ottenere lo status di rifugiato. Così Nnamdi comincia ad allenarsi con la primavera della squadra locale. Viene accolto con entusiasmo. Un metro e novantatré, fisico statuario: sarà di sicuro un campione.
Invece Nnamdi non sa colpire il pallone, non ha mai giocato nemmeno nelle pozzanghere della periferia di Lagos, e si aggira imbambolato per il campo. Gli adolescenti suoi compagni prima lo incitano, poi pensano sia scemo o traumatizzato dalle guerre e dalle violenze che lo hanno costretto a lasciare il suo Paese (si è appurato che viene dalla Nigeria), infine, esasperati, finiscono per sfotterlo. Nnamdi subisce senza reagire, come impermeabile agli insulti. L’allenatore non si capacita che un africano mostri tanta poca attitudine per lo sport. Non riesce a immaginare che possa avere altri interessi. Artistici, intellettuali. L’allenatore è una brava persona, si ritiene accogliente e inclusivo e lo è. Ignora di essere vittima di pregiudizi.
Negli spogliatoi Nnamdi, ormai ribattezzato Nando, non parla con nessuno e sta in disparte. Lo scoprono a ricucire la maglietta strappata da una trattenuta. Svelto, abile come una donna. Lo subissano di epiteti ingiuriosi. Un giorno si presenta all’allenamento con la maglietta rosso granato e i calzettoni a strisce diagonali. L’effetto estetico è armonioso. Ma la tintura l’ha improvvisata con lo smalto e i pennarelli del centro di accoglienza, quindi un po’ stinge per il sudore, un po’ si scrosta come intonaco. Comunque non è consentito cambiare la divisa. Nnamdi obietta che i colori della società (un banale grigio cemento con una banda scarlatta) sono tristi, e anche se la squadra dovesse iniziare a vincere – è in zona play out – un tifoso non sarebbe mai attirato a vestire come i suoi giocatori. Non seguiva il calcio, è vero, però le magliette dei campioni – anche se false – le vendevano pure nella sua città. Impazzavano quelle del Brasile, verdi e oro.
Viene fuori che Nnamdi ha passato l’infanzia ad aiutare la nonna sarta a tagliare pezze di stoffa e imbastire vestiti. Ha una squisita capacità di abbinare i colori. Alla fine abbandona il campo, ma gli fanno disegnare la divisa della squadra per la nuova stagione. Lo iscrivono a una scuola di moda, che però non riesce a finire perché in classe si annoia. E poi non ha sedici anni, come ha dichiarato per non essere espulso, ma diciotto, e comunque anche a sedici anni non sarebbe più un bambino, ma un uomo, e deve lavorare per mandare soldi alla famiglia, a Lagos. Così firma un contratto di apprendistato con Jasmine, una sarta marocchina, che disegna tessuti e li fa stampare in una fabbrica di Napoli. I più belli sono di Nnamdi. Poco dopo la sposa. I loro vestiti di nozze ottengono centomila like su Instagram, e cominciano a venderli online. Devono assumere altri dipendenti. Hanno già due figli. A sei anni il maggiore viene invitato alla scuola di calcio. Nnamdi ha rinunciato a spiegare che un africano può avere successo anche senza essere un calciatore. Lo iscrive, perché così fan tutti. Alle partite il sabato pomeriggio gli altri genitori gli chiedono in quale squadra giocava, prima. Serie B? 2a divisione inglese? Nnamdi serafico si vanta di avere segnato per le Super Eagles alle qualificazioni della Coppa d’Africa. Se non si fosse rotto i legamenti crociati, ora sarebbe famoso come Osimhen. E non riesce a reprimere un sorriso.