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Peter Handke e i rinunciatari

/ 02/10/2023
Paolo Di Stefano

Un romanzo da 6 in pagella? Un breve libro del premio Nobel Peter Handke uscito nel 1972 e riproposto adesso da Guanda (traduzione di Bruna Bianchi: 5+). Si intitola Infelicità senza desideri e parte da una notizia che lo scrittore austriaco, non ancora trentenne, legge nel novembre 1971 sull’edizione domenicale della «Volkszeitung», un giornale locale della Carinzia: «Nella notte tra venerdì e sabato una casalinga cinquantunenne di A. (comune di G.) si è suicidata con una dose eccessiva di sonnifero». Quella donna è sua madre. Così comincia il libro: «Sono passate quasi sette settimane da quando mia madre è morta, e voglio mettermi al lavoro prima che il bisogno di scrivere di lei, così forte al funerale, si ritrasformi nell’ottuso mutismo con cui ho reagito alla notizia del suicidio». Il bisogno di scrivere di sua madre, violento e insieme vago, richiede allo scrittore uno sforzo immane contro l’apatia e l’inerzia che nascono dal dolore e dallo stordimento. La vita della madre è la vita di tante ragazze nate negli anni Venti, in Austria come in Italia o come in Svizzera, donne che crescevano «senza desideri e un poco infelici». Dopo aver mendicato da suo padre il permesso di studiare ed essere stata liquidata con un semplice gesto del braccio, a quindici anni comincia a lavorare in un albergo sul lago: sguattera, cameriera, aiuto-cuoca, cuoca. Infine, sotto il regime hitleriano, l’incontro con un uomo sposato e molto più anziano di lei, la vita inevitabile di casalinga: «Oggi era ieri, ieri era tutto come sempre. (…). Mettere in tavola. Sparecchiare; “Tutti serviti?”; tendine aperte, tendine chiuse; luce accesa, luce spenta; “Non lasciare sempre la luce accesa in bagno!”; ripiegare; spiegare; vuotare; riempire; spina dentro, spina fuori. “Bene, per oggi è fatta”». Notare le pause ansiogene dei punti e virgola. A un certo punto, nel raccontare la parabola di sua madre, Handke scrive: «Fu; divenne; divenne un niente».

Il primo elettrodomestico, un ferro da stiro elettrico, poi il frullatore, il frigorifero, la lavatrice: «Sempre più tempo per sé», scrive Handke. Tempo liberato anche per leggere qualche libro. Che cosa leggeva? Hans Fallada, Knut Hamsun, Dostoevskij, Gorkij, Thomas Wolfe e William Faulkner. La vita e la morte di sua madre sono per Handke un’occasione per riflettere sulla letteratura, ma fermiamoci qui. A noi basta pensare che grandi autori leggeva sua madre (6+), pur essendo incolta. E immaginare che cosa leggerebbe al tempo dei cosiddetti booktoker (4+), banditori di libri per lo più banali, ai quali tocca affidarsi per la promozione della letteratura. Ai booktoker (che determinano sempre più le classifiche dei bestseller) si è allineato da un paio di settimane Robinson, il rinnovato supplemento culturale della «Repubblica», che vorrebbe parlare ai giovani social-dipendenti lontanissimi dai capolavori di Faulkner e di Handke. Sulla rivista online Pangea (5++) Paolo Ferrucci accenna ironicamente a una nuova collaboratrice di Robinson che, con il nome di Petunia Ollister, ha ottenuto molto successo mettendo ogni giorno su Facebook e su Instagram fotografie di libri su tovagliette da colazione, vicino a tazze da caffè, brioche, cucchiaini e piattini, e piccole zuccheriere di peltro… Atmosfera molto vintage e niente di spregevole, anzi, ma Ferrucci spera che tutto questo sparisca al più presto, poiché contribuisce al rimbecillimento generale di un’intera generazione.

Non so se abbia torto o ragione (4 – a me stesso), ma ritengo che un quotidiano come «Repubblica», nato all’insegna del grande confronto politico-culturale nella sinistra, debba andare in un’altra direzione rispetto alla Petunia: per rinnovarsi non è necessario rinunciare alla propria personalità. A ciascuno la sua funzione, a ciascuno il suo linguaggio. Questa rincorsa disarmata (e disperata) verso il pubblico mi ricorda quando i giornali cominciarono a inseguire il pettegolezzo televisivo per catturare più lettori, decretando per sé l’inizio della fine. Qualche giorno fa ho sentito su Radio Rai3 questa frase (6+++) del filosofo tedesco Ernst Bloch, teorico del principio-speranza: «La vita di tutti gli esseri umani è attraversata da sogni a occhi aperti, una parte dei quali è solo fuga insipida, anche snervante, anche bottino per imbroglioni; ma un’altra parte stimola, non permette che ci si accontenti del cattivo presente, appunto non permette di essere rinunciatari».