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I partiti e la campagna sul trattore

/ 25/09/2023
Orazio Martinetti

Scorrendo nomi e numeri delle imminenti elezioni federali, viene da parafrasare il Leopardi del venditore di almanacchi: «Liste, liste nuove; candidati nuovi. Bisognano, signore, liste?». In vista dell’appuntamento gli elenchi nel solo Ticino si sono allungati come un lenzuolo elasticizzato (256 nomi) per dieci posti disponibili (otto al Nazionale e due agli Stati). Lo scorso aprile, per le Cantonali, i partiti avevano presentato 49 candidati distribuiti su 10 liste per il Governo (cinque posti in palio) e 924 per il Gran Consiglio (90 seggi). L’affollamento ha generato reazioni opposte: per gli ottimisti, è un indice di vitalità di un sistema non ancora sconfitto dai profeti dell’astensionismo; per i pessimisti, l’ennesimo segno dell’inguaribile inclinazione alla megalomania. A fare chiarezza, ovvero a far opera di selezione, ci penserà il voto. Non è detto che trionferà, in una logica darwiniana, il migliore, il più preparato, il più competente. Ma questo esula dal perimetro della democrazia. Si spera solo che il tasso di partecipazione non scenda al di sotto del 50% (nel 2019, la media nazionale si era attestata intorno al 48%).

Ogni formazione esibisce una piattaforma programmatica, con un occhio rivolto ai sondaggi e all’«immagine» veicolata nei media e nei canali sociali. Da quando la politica si è fatta spettacolo (l’analisi di Gianni Statera, La politica spettacolo, è del 1986), tutte le segreterie partitiche si disputano le migliori agenzie di marketing politico, pubblicitari, comunicatori, suggeritori, scenografi, celebrità del mondo della televisione e del cinema. Il modello di riferimento rimane lo «show» americano, la sfilata dei candidati nel catino di uno stadio sotto luci stroboscopiche, gli spalti gremiti da sostenitori festanti e assordati da ondate di decibel. Tanti slogan, ragionamenti pochi (non è la sede).

Gli spettacoli non sono però tutti uguali. La differenza la fanno gli adattamenti e le declinazioni regionali, soprattutto nei partiti di centro-destra. Il richiamo al passato rurale del Paese è costante, benché il settore primario raccolga una frazione minima della popolazione attiva (suppergiù il 4%). Il presidente dei liberali Thierry Burkart, presenziando alla festa di lotta svizzera il 13 agosto a Deitingen (Soletta), ha tenuto il suo fervorino dall’alto del rimorchietto di un trattore; il 20 agosto Il Centro guidato da Fiorenzo Dadò ha scelto l’azienda agricola Pedrini di Airolo come sede del congresso cantonale, abbinando il raduno alla festa dell’alpe; il 26 agosto, l’UDC nazionale (SVP) ha riunito i suoi nella cornice della Swiss Life Arena di Zurigo-Altstetten, tra baite di montagna, camiciole da mungitore, campanacci, sbandieratori e spruzzi di segatura. L’ingresso nell’arena dei miliardari Blocher (padre e figlia) seduti sulle balle di un carro da fieno non lasciava dubbi: ecco le nostre vere radici, il sangue contadino che scorre nelle vene dei patrioti autentici, legati alla terra e alle usanze avite, semplici e frugali. Per altro l’aveva già notato nel 1744 Rousseau osservando il comportamento dei vallesani: villici laboriosi, amanti della libertà, sdegnosi del lusso. Sottotesto: non come quei burocrati che pasteggiano nei locali chic di Bruxelles, dediti al vizio, al ladrocinio e a ridicole discussioni sulle identità di genere…

A prima vista, è curiosa e paradossale questa esaltazione dei costumi rurali in un Paese ampiamente urbanizzato e terziarizzato come la Svizzera odierna. Non lo è se consideriamo incidenza e significato delle tradizioni – enogastronomiche, culturali, linguistiche, ludiche – che scandiscono la vita quotidiana dei cantoni extraurbani. Chi mette in scena lo spettacolo patriottico sa quanto contano gli archetipi nell’immaginario collettivo: noi siamo diversi, siamo un Sonderfall, le corti delle vecchie monarchie europee ci deridevano, per loro eravamo solo dei vaccari («Kuhschweizer»). E invece dall’alto delle nostre sublimi montagne abbiamo saputo autogovernarci attraverso un’architettura repubblicana e federalistica.

Le urne diranno se siffatta «ideologia rurale» dà ancora copiosi frutti sul piano elettorale. Gli strateghi sono convinti di sì, che lo stratagemma della ruralità spacciata come anima autentica di un popolo fiero e indomito offre garanzie di successo come nessun’altra. Se poi alla retorica aggiungiamo lo smarrimento, la confusione dei valori, il disgusto per la «classe politique», il gioco è fatto.